mercoledì 27 ottobre 2010

Ma quanti sono i clienti dell'Ikea?

Se ognuno dei clienti di Ikea sostituisse una lampadina ad incandescenza da 60watt con una a fluorescenza a basso consumo si risparmierebbe, in termini di energia e di emissioni di CO2 l'equivalente di togliere dalla strada 750 000 automobili. Questo e' scritto su una pagina del catalogo Ikea.

Ora, io non so quanti siano esattamente i clienti di Ikea, ma...
Una lampada a fluorescenza che produca una luce pari ad una ad incandescenza di 60w consuma 6w, quindi il risparmio e' del 90%. Se i clienti Ikea fossero quindi 833 milioni (poco meno di un miliardo), ognuno dei quali sostituisse la sua lampadina, si dedurrebbe che ogni automobile consuma (e inquina) quanto 1000 lampadine a incandescenza da 60 watt...

Cosi' poco?

lunedì 18 ottobre 2010

Meritocrazia

Settimana scorsa ho scritto, in un mio post, di un particolare imprenditore, il mio datore di lavoro, ed ho forse ingiustamente qualificato tutta la categoria. Ingiustamente perche', mentre e' piu' che palese che il mio datore di lavoro non faccia altro che sfruttare la ricchezza prodotta dai propri dipendenti (me compreso) per suoi vantaggi personali, non e' affatto detto che gli altri imprenditori facciano lo stesso con i loro dipendenti.
In un commento a quel post Liber mi ha portato l'esempio del suo datore di lavoro, che invece sembra si dimostri consapevole del fatto che sia il benessere del lavoratore, sia quello dell'imprenditore dipendono da un patto che consente di operare in sinergia. Entrambe le parti operano per massimizzare il bene comune.
Ma di quale bene stiamo parlando? Come diceva Cecilia Strada in una favola che ho postato su questo blog tempo fa, c'e' molta confusione su cosa sia la ricchezza. Per uno ricchezza significa un milione di miliardi, mentre per un altro una patata al giorno.
Se anche esistesse davvero (e francamente continuo a dubitarne, anche se ammetto l'esistenza di casi particolari) un imprenditore che divide equamente gli introiti dell'impresa, comunque si tratterebbe di uno che si integra e trae profitto dagli ingranaggi di un sistema che si basa sulla disuguaglianza.
Nel caso dell'imprenditore di Liber si tratta di uno che si e' fatto da se', mentre nel caso del mio datore di lavoro si tratta di uno che ha ereditato l'attivita'.

Cio' che il nostro modello economico dovrebbe assicurare (il condizionale indica che mi pare proprio che non lo assicuri affatto, ma questo discorso va fuori tema), e' la pari opportunita'. Non credo pero' che questo renda la situazione piu' socialmente accettabile.
Facciamo un esempio estremo. In un mondo ideale in cui la Fisica e' il metro di giudizio del merito, Einstein sarebbe supermilionario, perche' e' stato un fisico molto piu' geniale della media. Io ad esempio sarei poco piu' che un mendicante, in una societa' del genere, perche' le mie capacita' nel campo sono piuttosto limitate. Penso che sia un fatto genetico: io non riesco bene ad assimilare la Fisica (quanto ad esempio faccio egregiamente con la Matematica), quindi anche se la cultura fosse modellata su un sistema che premia quella disciplina, comunque non sarei mai diventato un grande genio della Fisica. E credo che la maggior parte della gente sarebbe piu' o meno al mio livello.
Il sistema sarebbe destinato ad avere pochi genii della Fisica supermilionari e una moltitudine di poveri imbecilli come me. Eppure ci sarebbe pari opportunita' per tutti. Ognuno sarebbe libero di fare le proprie scoperte sensazionali di importanza comparabile con la Teoria della Relativita' Generale, presentare le proprie scoperte al Grande Fisico ed ottenerne una adeguata retribuzione. Ci sarebbe il massmo di parita' di opportunita', ma ci sarebbe enorme disuguaglianza sociale.
Forse incolpare di questa situazione un genio come Einstein e' sbagliato, ma rimane il fatto che quel genio sta approfittando di quella disuguaglianza sociale.
Gia' questo sarebbe sbagliato, ma quanto meno un genio della fisica produce delle scoperte scientifiche che hanno di per se un valore in quanto tali.

Prendiamo invece un sistema basato sul consumo come il nostro. E' evidente che la ricchezza materiale e' prodotta da chi costruisce il prodotto di consumo.
Qualcuno, come il mio amico Maurice, direbbe che il marketing fornisce valore aggiunto al prodotto. E' vero, il prezzo di un vestito firmato dal Famoso Stilista e' maggiore del prezzo di un vestito identico non firmato. Eppure il lavoro necessario per produrre l'uno e l'altro e' identico. Il valore attribuito dalla nostra societa' al marketing non e' trascurabile. Ma questo perche' la nostra societa' premia il marketing.
A me pare un po' poco etico. Quel venditore in grado di offuscare gli occhi del cliente facendogli acquistare una cosa di poco valore intrinseco ad un prezzo elevato, inducendolo sovrastimarne il valore, e' in generale considerato un bravo venditore.
Questo paragone va un po' fuori tema, e' vero. Ma in fondo il "mestiere" dell'imprenditore e' proprio questo. Si tratta di riuscire a vendere un prodotto ad un prezzo maggiore del suo valore. Se cosi' non fosse l'azienda non riuscirebbe a stare in piedi. A tal proposito mi viene in mente una discussione tra me e un'altra blogger, riportata su un mio vecchio blog (scusate l'inglese).

Il mio datore di lavoro, nelle riunioni periodiche in cui giustifica il suo atteggiamento repressivo nei confronti delle rivendicazioni dei dipendenti, ottenendo l'effetto collaterale di creare un clima ancor piu' repressivo, e' solito dire "Non siamo qui per fare beneficienza", sottintendendo che il motivo per cui l'imprenditore mette del capitale e' perche' vuole ricavarne profitto, mica per fare genericamente 'del bene'. Io credo che in un sistema cosi' modellato sia anche comprensibile. Se io avessi soldi, perche' mai dovrei decidere di impiegarli in una attivita' produttiva se non avessi un margine di profitto?
Evidentemente, all'interno del sistema etico del capitalismo, questo e' ragionevole. Ma non credo che si possa negare che questo meccanismo crea ed accentua disuguaglianza sociale.

Io ho dei dubbi sull'effettiva capacita' del mio datore di lavoro di promuovere l'azienda (e quindi di fornire un aumento di ricchezza per i dipendenti, oltre che per se) - anche ammesso che cio' abbia un assoluto valore etico.
Ma se anche non avessi questi dubbi e il mio datore di lavoro fosse un imprenditore modello, non ci troverei nulla di strano se lui stesso ammettesse che io sono di gran lunga piu' bravo di lui con l'informatica. Che io sono in grado di fare programmi di una qualita' che rasenta la perfezione, mentre lui magari non e' nemmeno in grado di accendere il PC che sta sulla sua scrivania piu' che altro come status-symbol.
Io stesso non avrei problemi ad ammettere che lui, in quanto imprenditore e' decisamente molto migliore di me. Io non so vendere il prodotto, non so promuovere l'attivita', non so gestire il personale, non so procacciare affari, non sono capace nemmeno di maneggiare il denaro (tant'e' che, in famiglia, e' mia moglie a gestire questa attivita' :-/). Io al suo posto sarei un disastro completo. Almeno quanto lui al mio posto sarebbe un disastro completo.
Ma lui, per fare bene il suo lavoro, prende un sacco di soldi che escono dalla azienda. Io invece lavoro altrettanto duramente, e non riesco ad ottenere un aumento (nemmeno l'adeguamento all'inflazione programmata previsto dal contratto nazionale), da oltre quattro anni. La disuguaglianza sociale tra me e lui non e' basata sul fatto che uno dei due abbia piu' o meno abilita' nel proprio lavoro. E nemmeno sul fatto che l'attivita' svolta sia piu' o meno importante di quella svolta dall'altro nel processo aziendale. Ma semplicemente perche' il merito dell'uno e' valutato di piu' secondo metodi del tutto arbitrari e decisi in modo parziale. Per l'esattezza il mio merito lo valuta lui, ma io non valuto il suo. In soldoni lui decide quanto deve essere il mio stipendio, ma io non decido quanto debba essere il suo. Questa asimmetria, secondo me, fa si' che non si puo' proprio dire che la parita' di trattamento equivale alla parita' di ruolo e che il valore sia equamente ripartito sul merito.

Oppure possiamo invece ammettere che si', la nostra e' una societa' meritocratica, applicando pero' artificiosamente il merito sulle qualita' imprenditoriali, come nel mio stupido esempio di prima l'ho attribuita alla capacita' di eccellere nella Fisica. E' giusto?
L'imprenditore a questo punto potrebbe ribattere, in tono di sfida "Be', Dario, se non lo trovi giusto, perche' non fai tu l'imprenditore?". Gia', ma allora, se lui e' cosi' bravo, perche' non viene qui lui a fare il programmatore al posto mio?

Senza contare, poi, che se a botta fredda mi viene da dire che sono pagato poco rispetto al lavoro che faccio, anche questa affermazione risulta  piuttosto traballante, perche' non c'e' un termine di paragone. Un chilo di patate vale piu' o meno di tre grappoli d'uva? Dipende. Dipende da quanto e' nutriente? Da quante persone ci sfami? Da quanta energia ci vuole per produrre l'uno e l'altro bene? Di solito i prezzi di questo tipo di generi di consumo e' dettato dalla legge della domanda e dell'offerta. Se ci sono poche patate e le vogliono tutti, il prezzo delle patate andra' alle stelle, anche se per coltivarle il contadino ha fatto molta piu' fatica con l'uva, che pero' non se la fila nessuno e quindi viene data via a poco.

Valgono di piu' otto ore di Dario a sgobbare con la mente per fare programmi oppure otto ore di un ragazzino africano spese per andare a recuperare l'acqua potabile per se e la sua famiglia a piedi, sotto il sole cocente? Eppure io sono ben pasciuto e mi permetto pure degli extra, tipo una bottiglia di buon vino in una serata romantica di fronte alla mia R al fresco del pergolato di una trattoria nella campagna toscana, lui invece porta a casa solo dell'acqua sporca, sufficiente appena per tirare fino a domani.

Esiste la meritocrazia?
Precondizione, secondo me, e' stabilire quale sia il criterio per misurare il merito. E non mi pare proprio che, a livello sociale, l'imprenditore possa arrogarsi il diritto di decidere.

mercoledì 13 ottobre 2010

Alleanze

Ieri sera ascoltavo il Tg di Mentana. Non ero molto concentrato sulla TV, perche' quando ceno preferisco rivolgere la mia attenzione al cibo e ai commensali (nella fattispecie mia moglie R).
Il Tg di La7 mi piace. Per la verita' questa affermazione non e' molto significativa, visto che si tratta dell'unico Tg decente. O almeno l'unico che si piglia nel bosco di castagni dove abito.
Mentana invece no. Cioe', come diavolo si fa a passare dalla direzione di un Tg che distorce la realta' per servire il Padrone alla direzione di uno in aperta polemica, senza perdere la faccia?
Ma va be', non di questo volevo parlare. Di che cosa volevo parlare? Ah, si'.

Non mi e' sfuggito, ieri siera, al Tg7 l'intervista a Bersani. Ecco qui la notizia, da Libero-news, ma googolando "Bersani Ferrero Diliberto La7" escono mille altri risultati che propongono piu' o meno le stesse parole.
Secondo me Bersani non e' stato sufficientemente chiaro (o sono io che ho confuso un po' le cose che ha detto?).

Le questioni secondo me sono tre:
1) La ricerca di una alleanza per formare un governo dopo le elezioni (che, si auspica - anche se io non ci credo -, verranno celebrate dopo aver cambiato la legge elettorale).
2) Stabilire quali siano gli interlocutori che dovranno essere chiamati in causa per formulare una nuova legge elettorale.
3) Visto che nel frattempo il governo cadra' (si spera, altrimenti il discorso non sta in piedi), bisognera' trovare una alleanza per formare un governo temporaneo.

Che' infatti, a scapito di quanto dice Berlusconi, non e' ne' il parlamento ne' il governo che decide se si va a elezioni anticipate o se si trova una maggioranza alternativa. Ma il Presidente della Repubblica. Che poi, mi si corregga se sbaglio, a rigore, non e' che decida molto nemmeno lui. Cioe', se dalle consultazioni emerge una coalizione di maggioranza alternativa allora bisogna nominare un presidente del consiglio, se invece non esiste nessuna maggioranza alternativa non si puo' che indire le elezioni. Quindi non e' che Napolitano possa decidere molto. La scelta tra le due opzioni e' determinata dall'esistenza o meno di una maggioranza alternativa.
A me evidentemente non piace l'arroganza di Berlusconi quando dichiara di decidere se andare alle elezioni o no. Lui non decide un bel niente, perche' se il governo e' supportato da una maggioranza, governa e non c'e' bisogno di elezioni. Se no si deve dimettere, e quindi non solo non ha l'autorita' di indire elezioni, ma non puo' nemmeno governare. Si faccia da parte e stia zitto.
Pero' la maggioranza alternativa c'e' o non c'e', non e' che Napolitano la possa creare. Se Berlusconi non avesse piu' la maggioranza (perche' Fini non lo sostenesse piu'), e se poi tra le forze alternative (Pd, IdV, Udc, Fini e compagnia cantante) non si riuscisse a formare una coalizione che raggiungesse la maggioranza dei parlamentari, be', c'e' poco da fare. Quindi la decisione se ricorrere alle elezioni e' in potere delle forze politiche. Eccome! Se si alleano, non si vota. Se non si alleano, si vota.

Quindi, secondo me:
1) Che Bersani si allei un po' con chi gli pare, anche se mi pare triste tagliare fuori Diliberto e Ferrero prima ancora di valutare se ci siano convergenze ideologiche tra gli elettori del Pd e dei due mangiabambini (non si e' ancora deciso su che cosa basare l'alleanza, come si puo' decidere con chi farla?). Mi sembrerebbe uno scopiazzamento dell'antidemocratico modello americano: bipolarismo con uno scassaballe (Ralph Nader) che e' l'unico che dice le cose giuste ma e' sempre tagliato fuori. Se Bersani trovasse una alleanza di governo con Fini e Udc (oltre che DiPietro), piangerei la morte della Sinistra.
In ogni caso, spero che Bersani (al contrario di quanto fece il suo revolucionario predecessore) cerchi almeno la via del governo , e non dell'opposizione, altrimenti ci spetta un altro mandato di Berlusconi. Non credo che l'Italia lo sopporterebbe (tantomeno gli elettori del Pd). Quindi, se vuole lasciare fuori Diliberto e Ferrero, che lo faccia assicurandosi pero' una alleanza che possa governare!
2) A mio parere, poiche' le elezioni sono le regole del gioco, la maggioranza che deve approvarne la legge deve essere la piu' ampia possibile, tra i partecipanti del gioco. Teoricamente dovrebbe includere anche Berlusconi stesso (che nel frattempo sarebbe passato in minoranza). Evidentemente questo non e' possibile, visto che, ora mi pare chiaro a tutti tranne che ai vichinghi leghisti, Berlusconi e' la causa del regime antidemocratico nel quale ci troviamo. Berlusconi vuole sovvertire le regole a suo vantaggio personale, e dove non puo', vuole eluderle. Cio' lo esclude dal diritto di scelta democratica delle regole. Ma tutte le altre forze politiche dovrebbero essere della partita. Compresi, perche' no?, Diliberto e Ferrero.
3) Bisogna trovare una maggioranza che sostenga un governo per tutto il tempo necessario per partorire 'sta benedetta legge elettorale. Questo governo serve per governare, e non per fare la legge elettorale. La legge elettorale la fa' da chi detiene il potere legislativo, cioe' il Parlamento, mica del Governo. Inoltre, quale che sia la maggioranza che sostiene il Governo, come dicevo al punto 2, e' bene che la legge elettorale sia sostenuta da una maggioranza la piu' ampia possibile, e quindi anche dalle forze che non concorrono alla maggioranza di governo. Il motivo per cui e' utile che si nomini un governo per il tempo necessario per fare la legge elettorale e' che, non potendo ovviamente rimanere senza governo, se cio' non avvenisse bisognerebbe ricorrere alle elezioni, e quindi votare con la vecchia legge elettorale. E votare con la vecchia legge elettorale un Parlamento che si occupi di modificare la legge elettorale mi pare un po' bizzarro. Come accadde l'altra volta, dalle elezioni uscirebbe una maggioranza che non vorra' essere delegittimata dalla modifica della legge elettorale (che potenzialmente avrebbe portato ad una maggioranza diversa).

Quello che non capisco e' per che cosa Bersani cerca l'alleanza con UDC e Fini, oltre che con le colonne d'Ercole IdV e Vendola, rifiutandola invece con Diliberto e Ferrero. Come alleanza per un governo a termine che governi per il tempo necessario per rifare la legge elettorale? Come interlocutori per decidere come la legge elettorale venga fatta? O come alleati per il governo che dovra' nascere nel nuovo corso dopo le elezioni?

Boh!

lunedì 11 ottobre 2010

Io non capisco

Io non capisco.
Un imprenditore ha indubbi privilegi. Non come persona, ma come imprenditore.
Cioe', in genere e' ricco, e quindi sta meglio di uno che e' povero. C'e' disuguaglianza sociale. Ma non e' questo il tema del post.
Intendevo in quanto soggetto produttivo della societa'.
Un'impresa ha un valore per la societa' perche' produce della ricchezza che viene in qualche modo redistribuita tra tutti (o almeno alcuni) gli elementi della societa'. Un'impresa e' costituita grazie ad un capitale che e' fornito da un imprenditore. Nel modello di societa' in cui viviamo, quindi, e' grazie all'imprenditore che fornisce il capitale che la societa' riesce a campare.
Poi c'e' il lavoratore dipendente come me. Cioe', di lavoratori ce ne sono un sacco di tipi, ed io mi ritengo un privilegiato rispetto all'operaio che fa otto ore a sgobbare come uno schiavo per due soldi rischiando in ogni momento il posto di lavoro. Ma tutti i tipi hanno in comune il fatto che il loro contributo nell'azienda non e' quello dell'investimento del capitale, ma di mettere a disposizione il loro lavoro.
Io sono un bravo programmatore. Ma per quanto bravo, i buoni programmi che faccio non mi sfamano. Il mio lavoro per il quale ci metto dell'impegno, delle energie e del tempo non mi darebbe alcun vantaggio se non fosse sottoposto ad un processo di trasformazione in pane, acqua e altri beni necessari. In pratica io metto a disposizione il frutto del mio lavoro all'impresa ed in cambio l'impresa mi fornisce del denaro per acquistare quello che mi serve per vivere.
Oh. Questo e' un ragionamento banale, lo so. Ma mi pare che certi imprenditori a volte non lo capiscano. O forse facciano finta di dimenticarselo per loro convenienza. Quindi mi pare il caso di ribadirlo.
Insomma, l'imprenditore mette del denaro per fare in modo che l'impresa acquisti da me del lavoro.
Ma perche' dovrebbe fare una cosa del genere? Ovviamente perche' se e' vero che io ho necessita' di trasformare il mio lavoro in denaro per vivere, l'impresa ha necessita' di trasformare del denaro in lavoro, per vivere. In altre parole, il rapporto di lavoro tra l'imprenditore e il lavoratore serve a regolare un semplice principio di scambio tra soldi e lavoro, da cui entrambe le parti traggono vantaggio.
L'imprenditore pero' i soldi tipicamente ce li ha gia'. Se non li investisse nell'impresa non morirebbe certo di fame. Il lavoratore invece ha del lavoro da fornire, ma se non ci fosse l'impresa si farebbe una pippa e morirebbe di fame. Da questa asimmetria nasce il ricatto dell'imprenditore sul lavoratore.
Anche da questo punto di vista io sono fortunato rispetto l'operaio. Perche' il lavoro che l'operaio fornisce all'impresa non puo' essere trasformato senza di essa. Io invece potrei vendere i miei programmi. In altre parole io potrei diventare l'imprenditore di me sesso. La differenza tra l'operaio e me sta nel fatto che l'organizzazione necessaria per vendere programmi e' di gran lunga meno complessa di quella che serve a commercializzare il prodotto del lavoro dell'operaio. Mettere su una micro software house in rete credo che sia proponibile, per me, mentre mettere su una azienda automobilistica per un operaio della Fiat sarebbe impossibile.
Pero' temo che il progetto di mettermi in proprio mi costringerebbe ad impiegare molte piu' energie nell'aspetto poco interessante manageriale dell'impresa e mi distoglierebbe dall'aspetto che piu' mi appaga dal punto di vista professionale: i programmi. In sostanza la mia impresa personale fallirebbe perche' non sono capace di gestirla, anche se ritengo che il mio prodotto sarebbe di ottima qualita'. La mia impresa avrebbe bisogno di un manager, il cui sostentamento ridurrebbe il valore del mio lavoro.
Insomma, anche se il tipo di lavoro mio e' piu' elastico, anche io ho bisogno di una costosa organizzazione alle spalle per poter trasformare il mio lavoro in denaro.
Ed e' per questo che c'e' l'imprenditore. Lui ci mette i soldi necessari per tenere in piedi l'organizzazione che serve a me per espletare il mio lavoro e poterglielo vendere in cambio di soldi. Questo servizio in parte e' ripagato all'imprenditore per il fatto che il valore di cio' che produco e' decisamente superiore al suo costo. Mi spiego. Il cliente che compra il mio programma, lo paga molto di piu' del mio stipendio. Se non fosse cosi' non rimarrebbero soldi a sufficienza per pagare il resto dell'organizzazione che mi consente di lavorare.
Insomma, il ruolo sociale dell'imprenditore e' quello di consentire la trasformazione di un tipo di ricchezza (il lavoro), in un'altro (il denaro).

In questo senso l'imprenditore costituisce un valore positivo per lo Stato. Ed e' per questo che gode di privilegi. E non parlo solo delle agevolazioni fiscali giustificate per il funzionamento dell'azienda. L'imprenditore della azienda per la quale lavoro ad esempio va in vacanza ai tropici. Ha una villa enorme, uno schiavo filippino e gira in maserati. Se io avessi suoi soldi probabilmente li impiegherei in modi molto diversi, ma e' fuor di dubbio che io quelle cose non me le posso permettere. Eppure il valore del mio lavoro da programmatore in questa azienda non e' affatto inferiore a quello del suo di manager. Certo c'e' da dire che lui i soldi ce li aveva ancora prima di investirli nell'impresa (giusto o sbagliato che sia, non e' argomento di questo post). Ma quel suo capitale si e' ingigantito grazie al lavoro di quelli come me, mentre io sono li' ancora a litigare con le rate del mutuo.
Insomma, questa disparita' sociale che favorisce l'imprenditore nei confronti del lavoratore (o il capitalista nei confronti del proletario, per usare termini desueti) e' il prezzo da pagare per la redistribuzione della ricchezza sulla popolazione.
Cioe', esistono altri modelli economici. Per esempio il socialismo di stato. Ma una vera alternativa funzionante al capitalismo io non ce l'ho, quindi l'accetto.

In sostanza l'imprenditore ha diritto ai propri privilegi in cambio della redistribuzione della ricchezza sulla societa'.
Quindi, mi viene da concludere, se l'imprenditore non consente o in qualche modo ostacola la redistribuzione della ricchezza sulla societa', allora non ha piu' diritto a quei privilegi.
Ad esempio, un imprenditore che licenziasse i propri dipendenti per assumere manodopera sottocosto in un Paese povero, oppure per sostituire la forza lavoro con meccanizzazione, apparentemente genererebbe ricchezza per la societa', visto che renderebbe la sua impresa piu' competitiva, ma in realta' smetterebbe di redistribuire ricchezza agli italiani tramite quello scambio tra lavoro e soldi di cui parlavo sopra. Perche' dovrebbe godere in Italia di quei privilegi? Non lo capisco.
Questo discorso non vale solo per l'imprenditore, ma anche per il manager in generale. Lo stipendio di Marchionne e' giustificato dal fatto che il suo mestiere da' lavoro - e quindi reddito - ai lavoratori della Fiat. Ma quando invece di darlo lo toglie, perche' mai la societa' dovrebbe sopportare che prenda tutti quei soldi?

Siamo in un periodo di crisi!
La giustificazione del peggioramento delle condizioni dei lavoratori e' la crisi economica a livello globale. Gli imprenditori hanno meno ricchezza da investire e quindi hanno poco da redistribuire.
Come dire che nell'era delle vacche grasse l'imprenditore si sbafa l'eccesso di ricchezza prodotto dal lavoratore, mentre nell'era delle vacche magre e' il lavoratore ne subisce le conseguenze.
Si dice che lo svantaggio dell'imprenditore e' che deve subire il rischio. Pero' poi a finire col culo per terra e' il lavoratore, mentre il mio imprenditore va ancora in giro in Maserati, ha ancora la villa enorme con schiavo filippino e va ancora in vacanza ai tropici. Facile rischiare quando le cose vanno bene e poi pararsi il culo quando vanno male. Che diavolo di rischio e'?
Io proprio non capisco.

Tre


10/10/2007

martedì 5 ottobre 2010

Jamme jamme jà curriculì, curriculà

Primi anni '90.
Un po' ingessato nella sua tenuta da competizione (giacca e cravatta davvero non fanno per lui), con la ventiquattrore Delsey che l'aveva accompagnato in tutti gli anni di corso (e anche quelli fuori corso), il giovane Dario si reca all'appuntamento per l'ennesimo colloquio di lavoro. Ne ha gia' fatti tanti, per la verita' (e' un periodo in cui ancora gli informatici valgono qualcosa, nel mercato delle vacche), ma ancora non riesce a scrollarsi di dosso quella agitazione, come se dovesse andare di fronte al prof per un esame orale.
E' convinto che tutto sommato non bisogna dimostrare niente piu' ne' meno di quello che si e' e si sa, perche' bluffare puo' essere controproducente (se quelli ti assumono sulla base delle tue conoscienze, poi quando si rendessero conto che quelle conoscienze non ce le hai, ti caccerebbero - giustamente - a calci in culo).
Niente menzogne, quindi. Regola numero 1. Il trucco e' solo presentarsi bene valorizzando quello che si sa fare, e su questo, al giovane Dario, non lo batte nessuno.
Perche' allora quella sgradevole tensione nervosa? E si' che non e' proprio un ragazzino - dopo tutti quegli anni fuori corso. Ha avuto la possibilita' di scegliersi un piano di studi modellato sui propri interessi, anche se perseguirlo gli ha comportato un enorme dispendio di tempo ed energie. Fortuna che papa' e mamma l'hanno supportato in quel progetto. Eh si', uno come lui, qualche anno dopo, un ministro di un governo di centrosinistra l'avrebbe definito "bamboccione". Boh! Valli a capire 'sti ministri dei governi di centrosinistra!

Ci arriva in auto, Dario, al Centro Direzionale, tutto edifici di vetro e acciaio pieni di uffici... "no... non credo che mi piacerebbe passare parte della mia vita qui..." pensa, chiedendosi che cosa diavolo significhi l'espressione Centro Direzionale. Dario era pronto ad accettare un lavoro a prescindere, perche' essere non-occupati e' frustrante, oltre che pesante sulle spalle dei genitori (in realta' Dario poi trovera' un lavoro soddisfacente in qualche mese).
Parcheggiata l'auto, un'occhiata all'orologio. E' uscito presto di casa per essere sicuro di arrivare in tempo - regola numero 2: mai arrivare in ritardo ad un colloquio. Questo gli ha comportato un notevole anticipo - regola numero 3: mai arrivare in anticipo ad un colloquio. Okay, c'e' un bar. Il nostro va a perdere tempo dietro ad un caffe' e ad una sigaretta (in quei tempi era ancora consentito nei locali pubblici). Anche la barista e' tutta in tiro in quella divisa da bar professionale. Ma dove siamo finiti, in un altro pianeta?
Finalmente e' l'ora dell'appuntamento. Dario suona al citofono "Sono C, ho un appuntamento per un colloquio". Un uomo tutto grigio dall'eta' indefinibile lo accoglie presentandosi. "La faccio accomodare e intanto la prego di compilare questo modulo". Gli porge il modulo e gli apre la porta di un ufficio. E' un ufficio piuttosto ampio, con un tavolo rotondo nel bel mezzo, alcuni poster alle pareti, uno scaffale vuoto, un orologio appeso, tipo Ikea, che segna un minuto di anticipo rispetto l'ora dell'appuntamento. Il silenzio e' rotto solo dal ticchettio dell'orologio. Il colore predominante e' il grigio, la bella giornata sul giardino proprio fuori dalla finestra e' parzialmente nascosta dalla veneziana semichiusa. Ma il locale e' ben illuminato da luci al neon. Dario, lasciato solo nella stanza, inforca la penna e si china sul modulo. Come previsto ci sono domande di tipo anagrafico... nome, cognome, sesso, domicilio, nascita. Seconda pagina: curriculum. Esperienza lavorativa (nessuna), formazione... Dario si chiede perche' gli vengono richieste le stesse informazioni per cui e' stato preselezionato attraverso il suo curriculum. Ma non se lo chiede troppo a lungo: non e' la prima volta che deve compilare una cosa simile.
Terza pagina: test di intelligenza per scimmie. Triangolo, quadrato, pentagono: qual'e' l'elemento successivo? a) cerchio; b) cuoricino; c) esagono. E via cosi' per un numero incredibile di domande, da sfiancarsi le dita a mettere crocette sulle risposte esatte.  Dario vorrebbe dimostrare la propria indole creativa, piuttosto che l'intelligenza da primate, ma non c'e' verso, se anche riuscisse a formulare una legge che gli permettesse di dare una risposta diversa e non ovvia, verrebbe valutata una risposta sbagliata, visto che una spiegazione non e' prevista. I selezionatori sono convinti che il determinismo dell'universo si manifesti nella negazione di ogni creativita', e che quindi l'artista non esiste. Ma che cos'e' l'artista? - si chiede Dario.
Quarta pagina: simile alla terza
Quinta pagina: simile alla quarta. Dario comincia ad essere un poco scocciato. E' gia' passata oltre mezz'ora dall'ora dell'appuntamento e lui non ha fatto altro che mettere crocette su un foglio prestampato, in totale solitudine e rilassatezza. L'atmosfera non e' ne' ostile ne' amichevole. E' semplicemente fuori dal mondo, chiuso in quella stanza illuminata dai neon. Fa quasi freddo, nonostante la stagione estiva. L'aria condizionata e' a manetta.

Dario ha finito di compilare il suo questionario. Ci pensa un secondo ma poi... no, non merita di essere ricontrollato. Si appoggia alla comoda spalliera della sedia e si guarda intorno. Tic. Tac. L'orologio gli da' un po' sui nervi. Quaranta minuti oltre l'ora dell'appuntamento. Chissa' - pensa Dario - magari mi stanno lasciando da solo in questa stanza apposta, per poi condurmi in un'altra e farmi domande sui particolari di questa, per testare il mio spirito di osservazione. Non si sa mai - 'sti esaminatori sono spesso degli psicologi-da-pane-e-salame. Va be'! E quindi dovrei dimostrare di essere patologicamente un acuto osservatore o di essere superficiale e non aver osservato niente? Be', mai mentire ai colloqui, regola numero 1. Quindi nel caso me lo si chieda rispondero' che avevo previsto che me lo si chiedesse. Nel qual caso potrei mostrare forza di carattere per non essermi piegato ad una richiesta stupida oppure dovrei dimostrare di essere quello che accetta le regole ed agisce in rispetto della loro autorita'. Nel primo caso dovrei cercare di memorizzare i dettagli, nel secondo caso dovrei evitarlo. Boh, non si sa mai, tanto siamo qui a perdere tempo, osserviamo. L'orologio e' rotondo, i numeri sono romani solo sui quarti di giro: III, VI, IX, XII. Lo scaffale ha tre ripiani. Nel paesaggio agreste ritratto nel poster la cascina ha due ordini di otto finestre con gli scuri verdi, tutti aperti tranne la prima finestra a destra del piano terreno...
Cinquanta minuti dopo l'ora dell'appuntamento.
Cinquantacinque minuti. Dario comincia a guardare impazientemente l'orologio. Bussano finalmente alla porta e aprono senza attendere risposta. Dario fa a tempo a ricomporsi e, alzandosi, a girarsi. Appare una donna, finta bionda, con un po' troppo trucco. Un tailleur elegante blu, con camicetta un po' troppo sbottonata. Non guardare li', Dario. Sorride e porge la mano "Ci scusi se l'abbiamo fatta attendere". Dario nota l'uso del plurale a sproposito e il femminile che suona buffo ad accordarsi in genere al pronome Lei.
L'esaminatrice tiene una di quelle cartellette rigida a clip su cui e' agganciato il curriculum. Gli chiede di accomodarsi. Il tavolo e' piuttosto ampio, per cui si siedono uno accanto all'altra, contorcendosi un poco per guardarsi in faccia.

Esaminatrice: "Dottor C, cosa L'ha spinta a preferire la nostra Azienda?"
Dario (riprendendo il plurale di prima): "In realta' quel che so dell'Azienda e' quello che ho letto sul vostro annuncio"
Esaminatrice: "Si', ma ci ha spedito il curriculum, quindi..."
Dario (mai mentire, regola numero uno): "In realta' ho risposto ad altri annunci, oltre al vostro, ed ho spedito molti curriculum, nell'intenzione di..."
Esaminatrice: "Curricula"
Dario (possibile?!?): "Scusi?"
Esaminatrice: "Curricula. Lei ha spedito molti curricula. Singolare: il curriculum, plurale: i curricula".
Dario (perplesso): "...ne ho spediti molti nell'intenzione di..." (ma perche' subire?)
Esaminatrice: "...?!"
Dario (sorridendo): "Eh gia'. Lei ha ragione. Curriculum e' un neutro della seconda declinazione, e il nominativo plurale e' in -a, quindi. Curricula..."
Esaminatrice (faccia perplessa ma soddisfatta di ottenere ragione): "..."
Dario (tentando di dissimulare la soddisfazione per il sovvertimento del gioco tra le parti): "...anzi, quei cosi li ho spediti, quindi non si tratta di nominativo. E' un complemento oggetto: un accusativo plurale, dunque... Che e' comunque in -a. Curricula."
Esaminatrice (piu' irritata. Dario sta forse andando un po' oltre il limite): "si' ecco..."
Dario (fingendo espressione pensierosa): "...mi pare si tratti del diminutivo di 'currus'...".
Esaminatrice (non tenta nemmeno di mascherare l'irritazione): "...si', be', comunque, mi stava dicendo che ha spedito..."
Dario (scrollandosi la testa a dimostrare platealmente il ritorno alla realta'): "...ah, gia'... scusi... ho spedito molti curricula..." (si interrompe come alla ricerca del filo del discorso interrotto...)
Esaminatrice (senza dissimulare impazienza): "..."
Dario (maledizione, mi hai fatto buttare un'ora a fare crocette, ora tocca a me!): "...certo che..."
Esaminatrice (ormai ribolle): "?!?"
Dario (illuminato dall'idea): "...certo che in effetti, i neutri della seconda declinazione, in italiano, in genere hanno il comportamento bizzarro di declinarsi al maschile nel singolare e al femminile nel plurale..."
Esaminatrice (incazzata, ma anche incuriosita): "?"
Dario (finge di spiegare piu' a se stesso che a lei): "...si'... il muro/le mura, ad esempio. Oppure certe parti del corpo umano: l'osso/le ossa, il labbro/le labbra, il ginocchio/le ginocchia, il dito/le dita, il ciglio/le ciglia, il braccio/le braccia..."
Esaminatrice (mostrandosi falsamente divertita): "...quindi?"
Dario (ignorandola): "...gia'.... che strano quest'ultimo... nella parola composta "avambraccio" si comporta come un regolare maschile, anche al plurale: gli avambracci..."
Esaminatrice (ora deve intervenire per dimostrare la propria superiorita'): "gia'... ma si tratta di una parola comp..."
Dario (interrompendola spudoratamente): "si' ma non si spiegherebbe come la parola composta sopraciglio, si comporti come la radice, e faccia le sopraciglia, femminile al plurale..."
Esaminatrice (ora basta!): "Okay, torniamo a noi..."
Dario (ormai l'esaminatrice non esiste piu'): "...quindi, a rigore, curriculum dovrebbe essere declinato al femminile, se plurale: le curricula..."
Esaminatrice (ormai disperata, vuole passare oltre): "...okay..."
Dario (non ha nessuna intenzione di mollare il colpo): "...certo che 'curriculum' in effetti, rispetto agli altri esempi, ha la particolarita' di non essere tradotto in italiano. Nessuno dice 'il curriculo'. Si usa direttamente la parola latina: curriculum"
Esaminatrice (ammutolita non puo' far altro che ascoltare): "..."
Dario (dissimulando divertimento): "...e' che... sa cosa?"
Esaminatrice (incuriosita): "cosa?"
Dario (pazientemente spiega): "...che siamo ad un dilemma: in italiano le parole straniere non si accordano in numero, ma rimangono invariate rispetto alla radice. Cioe', non si dice 'weekends', 'fastfoods', perche' sono parole inglesi: rimangono 'weekend' e 'fastfood' anche al plurale. Lo stesso vale per le parole francesi: lo chef/gli chef, l'omelette/le omelette, il croissant/i croissant. O per quelle tedesche il blitz/i blitz, il dobermann/i dobermann, l'hinterland/gli hinterland. Per altro non conosco per niente il tedesco, quindi non saprei proprio come costruire il plurale di questi ultimi esempi..."
Esaminatrice (cercando di intervenire per mostrare un poco di cultura): "in tedesco si dice..."
Dario (ignorandola, di nuovo): "...ed e' forse per questo. Uno, per parlare italiano, non e' mica tenuto a conoscere le regole delle lingue straniere!..."
Esaminatrice (incassando il colpo): "..."
Dario (ripensando alle proprie parole): "E' che forse non e' proprio corretto considerare il latino una lingua straniera. Una lingua straniera e' probabilmente considerata quella che e' comunemente parlata in un'altra nazione da un popolo con altre tradizioni culturali. Il latino non ha queste caratteristiche..."
Esaminatrice (distrutta): "...gia' quindi..."
Dario (fingendo di seguire il discorso di lei): "...quindi forse e' giusto conservare il plurale nella lingua originale. Curricula... rimane solo da stabilire se si tratta di maschile o femminile"
Esaminatrice (mettendosi una mano alla bocca e alzando gli occhi al cielo alla ricerca di una ispirazione): "...io direi...."
Dario (venendole in aiuto): "...certo, come diceva NonRicordoPiuChi', e' l'uso che determina la grammatica e non viceversa. Io non uso molto frequentemente la parola curriculum. Probabilmente Lei per lavoro ha piu' a che fare con essa, quindi e' piu' qualificata a fornire una soluzione a questo quesito. Maschile?"
Esaminatrice (incerta): "uhm... direi..."
Dario (chiudendo definitivamente la divagazione): "Okay, maschile. Dicevo: ...ho spedito molti curricula ad altre aziende (cavoli, suona malissimo!). Alcune mi hanno risposto e sto facendo colloqui. In realta' pensavo di farmi un'idea, anche se incompleta, di questa azienda proprio durante questo incontro..."
Esaminatrice: "E se ne e' fatta una?"
Dario (abbassando irrispettoso lo sguardo sulla scollatura di lei): "Molto vaga, per la verita'. Sarebbe davvero stato carino incontrarla in abbigliamento casual, invece che in quell'elegante tailleur, per esempio"
Esaminatrice (stupita e falsamente infastidita): "Non vedo come il mio abbigliamento possa..."
Dario (aiutandola a capire): "E' che io faccio software, e sono pure bravo in questo. Pensare che il rigore nell'abbigliamento possa essere di qualche utilita' in questo campo significa che o non mi si vuole sfruttare in un impiego adeguato alle mie capacita', oppure non si ha ben chiaro quali siano le mie mansioni, in ogni caso non e' una buona valutazione del posto che mi si vuole offrire. Fermo restando che la situazione che si e' creata durante questo colloquio potrebbe essere molto diversa dall'ambiente di lavoro normale. Tuttavia e' proprio su questa che baso il mio giudizio, non avendo altri termini di confronto. Ci sarebbe invece da chiedersi su che cosa voi potreste basare la valutazione su di me..." (alzando schizzinosamente il questionario con due dita, come se fosse infetto) "su questo coso qui?" (aria di scherno).

Il colloquio prosegue poi per un'altra buona mezz'ora, durante la quale non viene fatta a Dario alcuna domanda di tipo tecnico (la cui risposta l'Esaminatrice non avrebbe comunque potuto valutare). Nessuno dei due e' piu' interessato all'altro. Alla fine l'Esaminatrice offre un caffe' a Dario, il quale rifiuta cortesemente. Si stringono la mano e lei ripete la frase di rito "Le faremo sapere", che Dario si aspettava.
Dario esce e raggiunge il bar sorridendo mentre ripercorre mentalmente la discussione. Sicuramente non lo richiameranno, e' stata una mattinata persa. Ma e' la prima volta che non prova frustrazione per un colloquio andato male. Anzi, prova orgoglio a pensare che in fondo in fondo, se e' vero che un lavoro e' necessario per portare a casa la pagnotta, e' pur vero che ad ognuno, anche se laureato e disoccupato, dovrebbe essere riconosciuta una certa dignita', e rivendicarla ad alta voce dovrebbe essere un diritto. Entra nel bar e sta per ordinare un panino con il prosciutto, con il sorriso in bocca. Si siede allo sgabellone davanti al banco, e la barista in divisa elegante gli si avvicina e gli sorride chiedendogli l'ordinazione "Prego?". Dario non riesce a resistere alla tentazione "Scusa... ma secondo te... il plurale di ciliegia si scrive con o senza la i?". Lei lo guarda sorpresa. Lui cerca invano di trattenere una grassa risata, a cui lei viene contagiata, senza capirne il motivo. Si ricompongono entrambi, lei si abbassa appoggiando i gomiti al banco e sussurrando (come se fosse un segreto) "sai che non lo so proprio?". E poi scoppiano di nuovo a ridere. Dario prende il panino e una coca e si siede al tavolo. I due evitano di guardarsi per non scoppiare di nuovo a ridere.

Questa storia e' un po' romanzata e imprecisa, considerato anche che sono passati quasi vent'anni. Ma gli episodi salienti sono tutti autentici. L'unica invenzione significativa e' il bar. E la barista.

lunedì 4 ottobre 2010

Nuovo corso

Il fatto e' che non ce la faccio a scrivere frequentemente post impegnativi come ho sempre cercato di fare. Non ho molto tempo, e nel poco che mi ritaglio non ho molta voglia di concentrarmici.
Anche perche', a parte un'amica blogger, che a volte temo venga a trovarmi solo per compassione, non c'e' un cane che mi legge. Cioe', io spendo del tempo e dell'impegno a scrivere qualcosa che non legge nessuno, a parte lei (e quindi, come diceva qualcuno, perche' non uso l'e-mail, strumento che mi e' piu' congeniale?).

Mi ritrovo molto piu' bravo a scrivere commenti ai post degli altri, spesso accendendo discussioni tra blogger, o alimentando quelle che li' nascono. E' che quando leggo un post o un commento di qualcuno, mi viene spontaneo esprimere il mio dissenso se non sono d'accordo, oppure manifestare la solidarieta' se lo sono. Invece la difficolta' di un post e' esprimere la propria opinione senza poter prendere spunto da cio' che si e' detto prima (tra l'altro, i post piu' apprezzati del mio blog sembrano essere quelli in cui ho barato, prendendo spunto da qualche altro post altrove, cioe' con lo stato d'animo di un commento piu' che di un post).

Poi ci sono anche i post dove non e' che si esprime un'opinione. Ad esempio, nel mio blog, ho spesso descritto le escursioni in montagna con mia moglie R e i miei cani. Che' non e' che si puo' essere d'accordo o no. A tal proposito Artemisia mi consiglia di lasciare "ganci". Cioe' spunti, domande (esplicite o sottintese) che fungono da appiglio a chi passa di li'. Un chiodo nel muro dove ti rimane impigliato accidentalmente il maglione, che ti condiziona a fermarti, controllare e caso mai commentare (imprecare?). Non certo a passare oltre senza notare. E' vero, dovrei inserire ganci, anche artificiosi, perche' altrimenti uno si rompe le balle a leggere, e quindi smette di passare. Dopo aver accolto il viandante e fatto accomodare in veranda, dopo avergli offerto un drink, bisogna trovare un argomento di conversazione, altrimenti a che serve?

Viceversa nei miei (pochi) post curo molto la forma. Ognuno ha almeno una foto (il piu' delle volte scattata da R) scelta con cura per rappresentare il contenuto. Le parole sono misurate e addirittura gli accenti sulle e sono appropriatamentente gravi o acuti (mentre quando scrivo in modo informale, come vedete da questo post, utilizzo l'antiestetico ma tanto comodo apostrofo). Ogni post e' inoltre rigorosamente tradotto in inglese e pubblicato sull'altro mio blog. Queste cose richiedono un impegno maggiore di quanto posso offrire, mentre il valore aggiunto e' pressoche' nullo (nessuno si formalizzerebbe per gli apostrofi, credo) (e, per quanto riguarda il blog in inglese, sara' un annetto buono che nessuno ci mette il naso).

E allora ecco il proposito per il nuovo corso: i miei post saranno piu' frequenti e meno curati. Meno curati, e quindi piu' immediati, scritti piu' con lo stomaco che con la testa. Mi si perdoneranno zoppicamenti ortografici. Questo post, ad esempio, e' stato scritto di botto e non e' nemmeno stato riletto.