lunedì 28 marzo 2011

C'e' guerra e guerra...?

Il post precedente voleva parlare in generale di guerra, e non di questa in particolare. In effetti, come dice Artemisia,un mio difetto e' che parlo troppo di massimi sistemi. Tuttavia ritengo che sia impresa troppo difficile riuscire a costruirsi una legge morale partendo dalla valutazione dei casi particolari senza poi astrarne una regola che si pretende valida per tutti i casi in cui se ne riconoscono affinita'. Il procedimento e' farsi una opinione sui casi particolari ed estendere una legge universale per poter decidere la propria opinione prima che sia troppo tardi, la prossima volta che ne capitasse l'occasione.
Mi pare sia cosi' un po' per tutti. L'importante, credo, e' che si dia spazio ad eventuali casi particolari che sfuggano alla categorizzazione, perche' il mondo e' sicuramente piu' vario del nostro modello mentale di esso.
In altre parole (scusate la divagazione) la mia opinione che ho tentato di descrivere nel post precedente era basata sul concetto generale di guerra, non sull'intervento in Libia. E pero', per dir la verita', questo caso non fa affatto eccezione, mi pare.

Quello che volevo dire e' una cosa molto semplice, e mi pare non molto contraddicibile, proprio per la sua estrema linearita'.
Partirei dal presupposto che nessuno, sano di mente, giustificherebbe la guerra, intesa come imposizione violenta di un ideale, di un concetto, di un punto di vista, o di qualunque soluzione ad una domanda che ammetta risposte alternative.
Insomma, dove c'e' una controversia, nessuna persona sensata direbbe che la violenza sia la soluzione migliore da intraprendere per risolverla. Anche se, per la verita', in alcuni (molti) casi e' la soluzione piu' facile, e quella piu' spesso adottata. E cosi' il compagno di classe grosso e muscoloso ottiene la merendina dal mingherlino cosi', semplicemente perche' a seguito di un rifiuto di questa logica, ad un possibile scontro quello che si farebbe piu' male e' il mingherlino
Nella nostra cultura diremmo che ognuno ha diritto alla propria merendina, qualunque cosa significhino l'aggettivo "propria" e il sostantivo "merendina", e nel caso ci sia squilibrio generato da una ingiusta distribuzione di merendine o comunque da pretese accampate da taluni compagni, la violenza non sia l'arma da auspicare per ristabilire l'equilibrio.
Questo credo che lo pensino tutti, dai piu' pacifisti ai piu' guerrafondai.

Poi pero' secondo me si puo' dividere il mondo dei sani di mente in due categorie (del tutto artificiose!: non si tratta di un tentativo, da parte mia, di mettere etichette, ma semplicemente di un modo per descrivere le mie valutazioni in merito al problema della guerra).
1) la prima categoria e' di quelli che rifiutano la guerra. I pacifisti ad oltranza. Quelli che pensano che la soluzione migliore non sia mai quella dell'intervento armato, e che ad esso ci sia sempre una alternativa. Che pensano che se si giunge alla necessita' della guerra, l'unico motivo e' che una alternativa non e' stata perseguita, e si ha ancora l'intenzione dolosa di non perseguirla.
2) la seconda e' di quelli che, pur (auspicabilmente) pensando che la guerra sia sempre un male, pur pensando che la pace sia una situazione di equilibrio migliore della guerra, ammettono che in taluni casi la guerra sia un male minore rispetto ad una situazione deteriorata, o addirittura che l'equilibrio pacifico sia ottenibile solamente dopo una fase di guerra (si spera limitata nel tempo).

In altre parole i due casi li possiamo semplificare cosi':
1) sempre e solo la pace
2) pace quasi sempre, tranne qualche caso in cui non e' possibile.
Trascurerei menti deviate che considerino altre posizioni che non ricadano in queste categorie.

Ora, direi di chiamare (per comodita') la posizione 1 quella dei pacifisti, la 2 quella dei mmmmh.... quasi-pacifisti.

Quello che mi chiedo e' quale possa essere il rigore logico dei quasi-pacifisti.
Supponiamo che ci sia il solito prepotente grande e grosso che vuole le merendine dai compagni di classe. Evidentemente le vuole perche' in cuor suo crede che sia morale averle. Pensa che sia giusto che lui, grande e grosso, si meriti tante merendine, mentre certi compagni piccoli e rachitici non se le meritino e non ne abbiano veramente bisogno. Il nostro prepotente si definisce un pacifista. Ed in effetti riesce ad ottenere le merendine senza nemmeno chiederle, semplicemente grazie al suo involontario aspetto esteriore minaccioso.
I compagni mingherlini, del resto, anche se ritengono sia giusto che ognuno conservi la propria merendina indipendentemente dalla stazza fisica, pur non avendo mai visto il prepotente menare le mani, lo temono, e per non rischiare gli cedono la merendina, piccolo pegno da pagare per conservare tutte le ossa al loro posto.
Poi pero' un bel giorno un mingherlino si sveglia storto, e quando arriva a scuola non cede la sua merendina di sua sponte al prepotente. Il prepotente, piu' sorpreso che adirato, gli chiede delucidazioni. Il mingherlino gli risponde cantandogliela in rima, che non e' giusto che finisca per rinunciare alla merendina, e quindi non intende sottomettersi. Il prepotente non si converte alle ragioni del mingherlino, e si genera quindi un conflitto, perche' sia il prepotente sia il mingherlino pensano di aver diritto alla merendina. Il prepotente, magnanimo, propone di dividerla a meta', ma il mingherlino si rifiuta di nuovo.
Be', pensa il prepotente. Credo nella pace, ma ammetto eccezioni, e questa e' un'eccezione al normale andamento del mondo. Spacca la faccia al mingherlino e si sbafa la merendina in questione, ristabilendo l'ordine morale della propria coscienza applicato al mondo.

In altre parole, la regola che adotta il nostro prepotente e' che non bisogna mai ricorrere alle mani, salvo in quei casi in cui non si riesce ad ottenere i propri scopi (secondo la sua visione giusti) in altro modo.
Personalmente trovo che quelle eccezioni vanifichino lo spirito pacifista generale. E' chiaro che nei casi in cui le controversie si possono risolvere pacificamente, risolverle pacificamente sia la strada giusta. Il punto e' decidere come risolvere le controversie quando queste non abbiano una cosi' chiara soluzione pacifica. Una posizione come "se me la dai con le buone bene, altrimenti te la prendo con le cattive" mi pare esattamente agli antipodi del pacifismo.

Ora, mi si dira', sto paragonando il prepotente agli insorti libici e ai loro alleati e, peggio ancora, sto paragonando Gheddafi al mingherlino rachitico che vuole difendere la propria merendina. Lo so, e' una visione un poco deviata, ma l'ho fatto apposta. E' una parabola e come tale deve provocare almeno un po'.
Il punto e' che ci sono in questo caso, come credo fermamente in tutti i casi di guerra, nessuna eccezione, due (o piu') fazioni che la pensano in modo fermamente diverso, essendo reciprocamente consapevoli di questa diversita' morale, e tuttavia credendo nella correttezza della propria posizione in modo sincero. Imporre una posizione sull'altra significa in ogni caso attribuire un valore morale inferiore a quella che soccombe. Farlo con la violenza significa sostenere che la violenza sia il criterio di decisione morale suprema. Esattamente il metodo che io tenderei ad attribuire al "guerrafondaio".

Se poi l'uso della violenza e' la questione controversa stessa, la guerra, come soluzione, risulta ancora piu' evidentemente contraddittoria. Ridurre all'impotenza con la violenza il dittatore perche' usa la violenza per ridurre all'impotenza e' come condannare se stessi prima ancora di agire. Senza poi contare la domanda se abbia un senso imporre la pace con la guerra.

Parlando poi di questa guerra in particolare, direi che non si discosta da tutte le altre guerre moderne. Cioe', si sostiene un regime autoritario che schiaccia la popolazione per pura convenienza economica. E, come spesso accade, il fatto che quel regime sia autoritario non e' affatto accessorio, perche' in questo modo il vantaggio economico e' piu' controllabile. In altre parole si sostiene un dittatore che accentri il potere economico di una nazione a scapito della popolazione. Poi, alla prima scintilla, e' lecito fare voltagabbana e combattere la suprema ingiustizia. E non sto parlando solo del Facciadimerda che ha baciato la mano a Gheddafi, prostrando tutta l'Italia ai suoi piedi, non molto tempo fa, ma di tutta la storia di quel dittatore, da quando e' salito al potere quarant'anni fa. Tutti noi (e non solo l'Italia) l'abbiamo sostenuto semplicemente perche' lui ci dava il petrolio. Non solo sostenuto, anche rifornito di tutti quei mezzi che sono serviti per realizzare quel regime autoritario di cui parlavo sopra. Poi, a un bel momento gli abbiamo voltato le spalle. Verrebbe quasi da pensare che difettiamo di coerenza, e che i veri motivi non siano esattamente quelli di proteggere quella povera popolazione.
Si potrebbe poi discutere se sganciargli le bombe sulla testa significhi esattamente proteggerli.

Francamente penso che Gheddafi sia da eliminare. Magari non fisicamente, ma almeno renderlo impotente. Anche questo penso che non sia appropriato, perche' se lui non vuole cedere il potere spontaneamente, l'unico modo di prenderglielo e' la violenza - anche senza finire per ammazzarlo. Ma penso che questa sia l'estrema ratio per risolvere una questione che si e' creata per colpa nostra. Si e' preso un burattino, lo si e' protetto fino ad ora, adesso che non serve piu' lo si costringe all'impotenza. E si sostiene che questo ultimo atto sia dettato da quei principi morali che fino a poco fa non prendevamo nemmeno in considerazione.
Sono poi pure convinto che sia molto piu' facile stanare e tagliare le ali Gheddafi che bombardare la Libia. Penso che in questo caso (come avviene in molti casi) le vie diplomatiche non si sia voluto percorrerle e si continui a non volerle percorrere (da parte dell'Italia, in quanto interlocutore privilegiato ma incapace, ma anche dell'Europa e dell'America).

Mi si dira' che il punto non sono le motivazioni specifiche di chi decide la guerra, ma se, almeno come effetto collaterale, non si finisca per agire in modo giusto pur perseguendo interessi che di etico non hanno niente. Mmh... non credo di condividere questa posizione, ma... tant'e'!
Quello che mi fa dubbio e' che se anche ammettessimo questo principio, cioe' che questa guerra si e' resa necessaria per incapacita' della nostra politica e diplomazia di sistemare le cose prima che si girasse la boa del non-ritorno, ebbene, dovremmo, ammettendo di avere sbagliato in questo caso, provvedere che non si sbagli piu' in futuro. E invece la storia mi pare ripetersi sempre uguale a se stessa. Se il mondo occidentale avesse imparato dall'errore in Iraq, in Afghanistan e in mille altre guerre in precedenza, allora avrebbe dovuto provvedere con armi pacifiche a fare in modo che non si arrivasse alla crisi libica. Imparando dalla crisi libica, non mi risulta che i governi stiano facendo alcunche' per evitare altro spargimento di sangue futuro.

Dire che la guerra e' inevitabile, che non c'e' alternativa nonostante la soluzione non ci piaccia e' pura retorica. Molto di piu' che dire che la guerra non puo' risolvere le controversie.

venerdì 25 marzo 2011

Il grigio non esiste

Ma la guerra e' giusta o sbagliata?
E' un problema morale, credo, e in quanto tale deve essere giudicato dalla morale di qualcuno.
Evidentemente di qualcuno vivo.
La storia e' fatta dai vincitori, dicono. Cio' e' evidente e addirittura ovvio se i perdenti muoiono.
E questa e' naturalmente la logica della guerra. Siccome non possiamo avere una morale assoluta, merita che la storia la scriviamo noi. Dobbiamo quindi vincere. E per farlo dobbiamo combattere la guerra, ed uccidere il nemico.
Bella logica si dira'. Ma qual'e' l'alternativa? L'alternativa e' decidere insieme che cosa fare. L'alternativa e' la "democrazia morale".
Mi si dira', volando indietro nel passato, che Hitler non avrebbe accettato questa alternativa, ma a noi pare talmente ovvia ed evidente...!!! Eppure nemmeno noi l'accettiamo.
E allora non e' come diventare a nostra volta il carnefice? Hitler uccideva per promuovere un ideale che gli pareva giusto. Noi uccidiamo per promuovere un ideale che ci pare giusto. Che differenza c'e'?

E' un problema di scelta. E' possibile risolvere i problemi senza ricorrere alla violenza?
Se si pensa di no, allora andiamo a combattere questa guerra, perche' dobbiamo a tutti i costi imporre il nostro modo di vedere, visto che non vogliamo che ci venga imposto con la violenza l'altrui.
Se invece si pensa di si', allora non si puo' ipocritamente fare eccezioni. Cioe', non si puo' cercare di discutere con la diplomazia ed altre armi pacifiche per giungere all'imposizione del proprio ideale e se non si riesce allora imporlo con la violenza. Anche questa sarebbe violenza.

Io credo nelle armi della pace. Io credo che si possa cambiare il mondo con quelle armi. Anzi, mi pare che questa sia l'unica strada per sopravvivere.

mercoledì 23 marzo 2011

Ma quale unita'?

Come al solito arrivo tardi con i miei post, un po' per pigrizia, un po' per mancanza di tempo. E cosi' eccomi qui a scrivere delle celebrazioni dell'unita' d'Italia, quando le news sono ormai focalizzate su altri temi ben piu' cruciali per il destino del mondo intero (la catastrofe radioattiva in Giappone - oltre che, ovviamente, l'empatia nei confronti di quei poveri disgraziati che se non sono morti per il terremoto, se sono sopravvissuti allo tsunami, ora devono fare i conti con le radiazioni, il tutto gia' passato in secondo piano rispetto ai fatti in Libia).

Sul mio balcone sventola da qualche settimana la bandiera italiana. Di solito la espongo solo il 25 aprile e il 2 giugno, visto che degli appuntamenti della Nazionale di calcio me ne frego.
La bandiera sul balcone non mi evoca affatto una sensazione di fascismo come capita al ;-) solito scettico della famiglia Artemisii. Addirittura mi pare che, nel contesto politico attuale, come dice Concita De Gregorio, "l'amore per il tricolore e'rivoluzionario". E se l'accusa proveniente da destra e' che la sinistra si sia appropriata di un simbolo che ha sempre rifiutato, be', mi pare che la componente di desiderio di distinguersi da una nutrita parte politica di destra che ha fatto proprio questo rifiuto non sia da sottovalutare.
La bandiera che sventola sul mio balcone e' evidentemente (come si confa' ad una bandiera) un simbolo. Ma non sono sicuro che simboleggi esattamente il motivo per cui l'ho esposta.
Certo, credo che significhi che indietro non si puo' andare. Credo nell'unita' politica dell'Italia. Che se non ci fossimo unificati 150 anni fa "saremmo stati spazzati via dalla storia", come dice Napoitano. Non solo politicamente, ma anche culturalmente. Credo che non abbia senso auspicare una divisione territoriale politica, perche' credo che sarebbe bello abbattere tutti i confini, e, dove ancora ci sono, debbano essere degli elementi di contatto con gli altri popoli, e non di divisione da essi. Credo che sia giusto che esista una Italia per esprimere l'accoglienza nei confronti di coloro che arrivano, non il diritto di costruire un muro per lasciarli fuori. Credo che sia questo il significato di Unita'.

E poi credo nell'unita' eterogenea ma compatta della cultura italiana. La gastronomia, giusto per fare un esempio che si addice ad un goloso come me. La cucina italiana e' radicata in secoli e secoli di storia, ben da prima dell'unita' politica. Io amo anche le cucine straniere, e non penso affatto siano da meno, ma apprezzo la diversita' di quella italiana. Non e' che il sushi sia superiore o inferiore alla pizza, ma sarebbe stupido non ammettere la differenza culturale che ha portato all'una e all'altra cosa. Questo vale, credo, per qualunque forma d'arte. I pittori italiani sono italiani da ben prima dell'unita' d'Italia. Dante Alighieri stava ancora nel medioevo quando parlava di Italia. E' una identita' culturale gia' radicata quando l'unita' politica non era nemmeno un'idea, ed e' una identita' che e' ancora viva e prospera, anche se c'e' qualcuno che non lo ammette.
Non e' come gli acquedotti e le strade imperiali dei Romani, che ti viene da dire caspita guarda che opere che hanno fatto 'sti Romani, immaginando una magnificenza ormai morta, come quei ruderi. No, si tratta di una cultura viva, che ci distingue e ci caratterizza.
A partire dalla lingua, che, come dice Artemisia, e' davvero un bellissimo idioma. Credo che si tratti di un effetto, piu' che di una causa. Anche se e' costellato da una miriade di dialetti poco conciliabili, l'Italiano e' il sintomo di una identita' culturale che ci portiamo dentro inconsapevolmente.

Questo non significa rifiutare o comunque ritenere inferiore o inconciliabile tutto quello che c'e' fuori. E' che la cultura deve avere una storia, un Popolo, una Nazione che l'abbia prodotta e che la faccia vivere. Una cultura senza storia e' come la CocaCola rispetto al vino. Una cultura morta e' come il tentativo di riconoscere i sentori aromatici di un vino ridotto ad aceto.

Credo nell'unita' d'Italia. Quello in cui non credo e' l'espressione politica di questa Nazione. La Patria e' un sentimento che non mi appartiene. Che, per quanto mi riguarda non esiste, e considero anche un po' fessi coloro che ci credono. Ritengo stupido difendere indiscriminatamente e acriticamente la nostra oligarchia politica semplicemente perche' e' la distorsione dell'espressione democratica. Penso che l'Italia non sia in grado di governarsi seriamente, ma penso che questo non ha niente a che vedere con il senso di unita', con il senso di appartenenza ad una Nazione, ad un Popolo e, in un certo senso, ad uno Stato. Sono contento di essere italiano, e ne vado addirittura fiero, quando vado all'estero, perche' non si puo' che essere fieri di essere quello che si e'. Anche se "questa" Italia non mi rappresenta. E non ho la minima intenzione di difenderla.

Il tricolore appartiene a me molto di piu' che a quelli che dividono, che respingono, che si fanno i fattacci loro in nome della bandiera stessa, e di quelli che si dicono "importanti" perche' mandano avanti l'economia, ma in realta' fanno soldi alle spalle del popolo. Di quelli che noi eleggiamo e loro ci vendono per un pugno di soldi sporchi. Di quelli che si siedono sul velluto quando e' ora di rimboccarsi le maniche per difendere quel poco di dignita' che ci e' rimasto.

Maro'! che pathos!