mercoledì 8 luglio 2015

Erbivori e carnivori

Un amico ha posto un interessante quesito: se l'etica di un vegetariano e' quella di evitare la macellazione animale per nutrirsi, poiche' ama gli animali, allora come puo' giustificare la macellazione animale per nutrire il suo amico cane (che naturalmente ama, in quanto animale)?

Mah, c'e' vegetariano e vegetariano. Le motivazioni possono essere diverse.
Ci sono i "vegetariani animalisti", che non mangiano animali perche' vogliono evitare di ucciderli. C'e' da dire che tra una coppia cane-padrone in cui il padrone e' vegetariano e una in cui il padrone non lo e', quest'ultima consuma decisamente molta piu' carne della prima, e quindi contribuisce all'uccisione di un numero di animali maggiore.
Poi c'e' da dire - e a questo ho pensato spesso - se vale il numero di animali morti, oppure il loro grado di intelligenza... ad esempio, uccidere una cozza e' piu' o meno eticamente accettabile di uccidere una vacca? Certo se ho fame non mi basta uccidere una cozza, ma ne devo uccidere tante, mentre se voglio mangiare carne bovina, uccidere una vacca mi sfama e ne avanza in quantita'. Ma il grado di intelligenza di una vacca e' maggiore o minore della somma dei gradi di intelligenza di tutte le cozze che dovrei uccidere per ottenere un equivalente peso dell'alimento finito? Perche' alla fine quel che conta e' il peso. Un coniglio mi sfama per una settimana? Una vacca mi sfama per un tempo molto maggiore, proporzionale al rapporto tra il peso della vacca e quello del coniglio. Ammesso che l'intelligenza di una vacca sia simile a quella di un coniglio (sempre che l'intelligenza sia appunto il fattore discriminante), uccidere una vacca ha senz'altro lo stesso valore etico di uccidere un coniglio, ma fornisce sicuramente un apporto nutrizionale maggiore, e quindi dovrei ucciderne un numero inferiore. Se e' eticamente sbagliato uccidere un animale, evidentemente e' eticamente ancora piu' sbagliato ucciderne piu' di uno. O no?
Gia', pero' in natura abbiamo molti piu' conigli che vacche. O almeno dovremmo averne molti di piu' se non considerassimo gli allevamenti intensivi (cioe' se tutti fossimo vegetariani, e la vita degli animali dipendesse solo dalle leggi di natura). Credo. Quindi la somma delle intelligenze dei conigli nel mondo sarebbe maggiore della somma delle intelligenze delle vacche nel mondo. Ammazzare una vacca, quindi, globalmente sarebbe meno equo di ammazzare piu' conigli. Dove ho letto che il peso totale di tutte le formiche del mondo e' di gran lunga maggiore del peso totale di tutti i mammiferi, di tutte le specie, nel mondo? Ma questo non c'entra niente.
Perche' bisogna valutare l'intelligenza, ci si potrebbe chiedere. Naturalmente perche' cio' che rende eticamente diverso un animale da un vegetale e' proprio l'intelligenza. Se non voglio uccidere nel senso che non voglio spezzare una vita, anche mangiare una rapa e' immorale, perche' per farlo spezzo la vita della rapa. Invece il vegetariano non rifiuta di spezzare una vita di una rapa, ma quella della vacca si'. Perche'? Perche' la vacca e' intelligente, al punto da immaginare che sia autocosciente. Cioe', se e' in grado di avere una coscienza di se', allora non solo soffre, ma anche sa di soffrire. O addirittura di morire. E credo sia questo il limite che i vegetariani animalisti non vogliono superare, anche se e' difficile credere che una cozza abbia coscienza di se' e quindi sia in grado di sviluppare una gnoseologia della sofferenza, o addirittura della morte. Per altro la coscienza del se' ci porta a paradossi filosofici che forse e' meglio non affrontare (l'autocoscienza puo' essere sperimentata solo dal se', quindi non e' possibile avere indizzi sull'esistenza dell'autocoscienza altrui). E' indubbio pero' che se ammazzo una vacca con un'ascia come in Apocalypse Now, quella da' davvero l'apparenza di soffrire, mentre se faccio la stessa cosa con una rapa e' difficile credere che essa provi qualcosa.
Ma tornando alla coppia cane-padrone, se esistesse un cane per ogni essere umano (avremmo quindi circa sette miliardi di cani sul pianeta), e se la quantita' di carne necessaria per sfamare un cane nell'unita' di tempo fosse uguale a quella necessaria per sfamare un umano, potremmo dire che globalmente il numero di animali uccisi per sfamare i cani sarebbe uguale al numero di animali uccisi per sfamare gli umani. In realta', i cani si accontentano degli scarti della produzione di carne per gli umani. Ma poniamo che la quantita' di scarti per l'alimentazione umana equivalga alla quantita' di prodotto utile: e' evidente che il fabbisogno di animali ammazzati per i cani sarebbe equivalente al fabbisogno di animali ammazzati per gli umani.
Naturalmente pero' il numero dei cani sul pianeta e' largamente inferiore a quello degli umani, quindi il numero di animali ammazzati per l'alimentazione dei cani e' decisamente molto inferiore. Se gli uomini diventassero tutti improvvisamente vegetariani, il numero di animali ammazzati per l'alimentazione (dei cani) sarebbe ridotto a meno della meta'. Questa conclusione potrebbe essere una giustificazione etica sufficiente per questi "vegetariani animalisti".
Naturalmente poi e' da valutare anche l'eticita' della produzione di cibo (per l'alimentazione umana e ancor di piu' per quella canina). Ma questo e' un altro discorso.

Poi ci sono i "vegetariani-nutrizionisti" che lo fanno per questioni di qualita' della nutrizione. Io non sono un grande esperto in questa cosa, so solo che da quando ho ridotto drasticamente il consumo di carne (soprattutto rossa, ma anche bianca) e pesce, sto fisicamente molto meglio.

Infine c'e' un'altra razza di vegetariani. I "vegetariani-ambientalisti", che pensano che consumare carne sia dannoso all'ambiente. Naturalmente l'esistenza degli animali e' cosa buona per l'ambiente, infatti e' la Natura stessa che ha inventato gli animali. Pero' gli allevamenti intensivi invece soffrono di alcuni problemi. Innanzitutto la concentrazione di una grande quantita' di animali inquina. Secondo consuma una quantita' di vegetali enorme.
La quantita' di terreno che deve essere utilizzato per produrre foraggio sufficiente per l'alimentazione di un bovino consentirebbe altrimenti la produzione di alimenti vegetali per umani in grado di sfamare un numero di persone molto maggiore di quante ne sfama la carne prodotta tramite la macellazione di quel bovino. Per unita' di spazio coltivabile e di tempo, quindi, la produzione vegetale e' piu' efficiente per la nutrizione umana di quanto non lo sia la produzione animale.
A me questi vegetariani piacciono, perche' hanno ragione.
Il punto e' che se sul pianeta fossimo molti di meno, non si porrebbe il problema. Ma sette miliardi di persone dovrebbero avere accesso al cibo necessario per non morire di fame. E se il cibo non e' sufficiente per nutrirle tutte, e' evidente che ce ne saranno alcune (i poveri, tipicamente), che non ce l'hanno quell'accesso. Mangiare carne non e' sostenibile.

Io personalmente sono quasi-vegetariano. Nel senso che carne e pesce li mangio si',  ma con moderazione. Diciamo che mediamente in una settimana mangio carne o pesce una volta (su quattordici pasti, escludendo le prime colazioni, in cui mi sparo solo un po' di cereali e frutta).
Secondo me il consumo di carne non e' insostenibile. Il consumo di MOLTA carne lo e'. Io rapporto il mio stile di vita a quello dei miei bis bis bis, con azienda agricola del tutto autosufficiente dal punto di vista alimentare. Mangiavano carne, ma una volta ogni tanto. I polli, per esempio, erano utili come trasformatori di proteine, nel senso che gli scarti dell'utilizzo di verdura in cucina servivano per nutrire i polli. Quelli facevano uova e alla fine venivano macellati e mangiati. Il loro sterco era utile come concime per la produzione di altri vegetali. Insomma, il problema secondo me non e' se mangiare o no la carne, ma avere uno stile dell'alimentazione sostenibile, cioe' che non lasci il mondo in condizioni peggiori. Ci riesco? Probabilmente non del tutto, ma sicuramente molto di piu' di quelli che mangiano carne in continuazione, rimettendoci, per altro, la salute.

venerdì 10 ottobre 2014

Sette



10/10/2007

giovedì 9 ottobre 2014

Il ruolo sociale del lavoratore

Io non credo molto nel senso di appartenenza alla societa'. Cioe', non credo che il lavoro ne sia un indice. Non credo che uno che non lavora debba sentirsi inutile nei confronti della societa', perche' non e' il lavoro che misura la sua importanza sociale.
Io lavoro per una azienda privata nel campo dell'automotive. Ecco, credo che, sicome mi ritengo bravo nel mio lavoro, grazie a me quella azienda produca prodotti un po' migliori. Il che significa, in soldoni, che le autovetture prodotte dai clienti di questa azienda abbiano una qualita' un pochino (ma si tratta di una questione infinitesima) migliore di quella che avrebbero se al posto mio ci fosse uno un po' meno bravo di me. Oppure hanno la stessa qualita' ma costano un pochino meno.
In altre parole, un'azienda se la cava un pochino meglio o un pochino peggio a seconda di quanto piu' o meno bene un singolo lavoratore di quell'azienda lavora.
Ma da qui a dedurre l'importanza di quel lavoratore per la societa' mi pare che ce ne passi.

Io non mi sentirei meno utile alla societa' se fossi disoccupato. Magari meno utile all'azienda, ma non alla societa'.
Certo, continuare a sfamarmi senza guadagnare la pagnotta significherebbe che la pagnotta qualcun'altro l'ha guadagnata per me. Ma se fossi disoccupato non sarebbe mica colpa mia!

Perche' il motivo fondamentale per cui lavoro non e' rendermi utile agli altri. Se fosse questo non lavorerei per una azienda privata nel campo dell'automotive. Sarei invece... chesso'... medico, infermiere. O magari (questo mi e' piu' congeniale), lavorerei nel campo dell'alimentazione.
Il motivo per cui lavoro e' proprio quello di guadagnarmi la pagnotta. Senza lavoro non mi pagano, e quindi dovrei accontentarmi al piu' della sopravvivenza. Lavorando invece guadagno il necessario e l'utile per alimentare i miei sogni (se non per realizzarli).

Io non credo che il problema di questa societa' sia la disoccupazione. Credo invece che il problema sia la poverta' che la disoccupazione comporta. Se per assurdo si potesse stipendiare tutti i disoccupati con salari paragonabili a quelli dei lavoratori, allora perche' mai la disoccupazione dovrebbe essere un problema?

Se il problema fosse il lavoro (e non la pagnotta), allora proporrei la reintroduzione della schiavitu'. Uno schiavo lavora e viene nutrito a sufficienza per continuare a lavorare, ma non prende un centesimo in piu'. Questa immagine mostra che non e' il lavoro che rende liberi, ma la retribuzione che ne deriva.

Quindi non basta trovare lavoro per i disoccupati, ma bisogna garantire loro le condizioni di elevare il proprio status. Bisogna fare in modo che dal loro lavoro derivi il potere di gestire la propria vita. Se noi facciamo in modo che il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro sia di ricatto reciproco, finisce che, in un periodo di crisi del mercato del lavoro, il lavoratore perde il potere di gestire la propria vita. Diventa schiavo.
Forse possiamo in questo modo anche sconfiggere il problema della disoccupazione, ma non abbiamo comunque risolto il problema sociale che comporta. e' un po' come entrare dalla porta per uscire dalla finestra.

giovedì 18 settembre 2014

Difesa a oltranza dell'articolo 18

Mica tutti i lavoratori sono coperti dall'articolo 18 ne' da altre forme di protezione del loro posto di lavoro. Per esempio l'artigiano idraulico che ho chiamato l'altro giorno per aggiustare una perdita in bagno non ha il lavoro protetto dall'articolo 18. Se io lo chiamo perche' ho la perdita lui lavora. Ma se io la perdita non ce l'ho non lo chiamo, e lui non lavora e non percepisce un euro. E' uno svantaggio rispetto al mio lavoro, perche' quando c'e' lavoro per me, lavoro. Quando ce n'e' poco lavoro meno, ma devo comunque stare qui le mie otto ore e lo stipendio lo percepisco lo stesso. Naturalmente se le condizioni si fanno piu' critiche intervengono gli ammortizzatori sociali eccetera eccetera, ma sta di fatto che il datore di lavoro non mi puo' licenziare senza giusta causa, perche' c'e' l'articolo 18.
In ogni caso non preoccupatevi, il mio idraulico non e' che muore di fame. In realta' il mio idraulico percepisce un reddito molto maggiore del mio, ed io mi sono fatto il culo cosi' in universita' per farmi una cultura che mi servisse per la mia professione, mentre lui potrei definirlo semianalfabeta.
Accetto pero' questa cosa: il diritto ad essere coperto dall'articolo 18 me lo sono acquisito comprandolo con una parte di reddito. In altre parole e' un'assicurazione che ho pagato (salata, per giunta). Avrei potuto fare il lavoratore autonomo e il mio reddito sarebbe stato molto maggiore. Ma se per caso si fosse entrati in un periodo di crisi del mio settore, probabilmente avrei lavorato molto meno, e quindi guadagnato molto meno. L'articolo 18 serve a proteggere il lavoratore dalle bizze del mercato del lavoro, dalla carica delle vacche grasse e dalla fame di quelle magre.

Poi c'e' tutta una categoria di lavoratori che non sono coperti da articolo 18, ma che, di fatto, sono a tutti gli effetti lavoratori dipendenti. Sono diverse forme contrattuali, pur legali, come, ad esempio, la finta Partita IVA. Cito questa forma perche' anche io, nella mia storia lavorativa, in tempi non sospetti, ho dovuto piegarmi ed accettare queste condizioni. Ci avevo la mia brava partita IVA e fatturavo regolarmente la mia prestazione di lavoro a tutti i clienti che avevo. Uno. Sempre quello. Che mi faceva lavorare per 10 ore al giorno, niente ferie pagate, niente certezza per il futuro se non quella sancita da una stretta di mano elargita calorosamente in un periodo di vacche grasse. Difficile capire il livello del mio reddito. Si tratta di quasi venticinque anni fa. Allora si pagava in lire e con duecento lire si prendeva un cono gelato due gusti.

Pero' una cosa la posso dire: Quando mi sono licenziato e me ne sono andato sbattendo la porta dopo un anno che vanamente chiedevo che la promessa di essere assunto a tempo indeterminato venisse finalmente onorata, sono andato a lavorare per una azienda che mi ha subito assunto a tempo indeterminato, per uno stipendio netto annuale che era di gran lunga inferiore alla retribuzione che fatturavo in un anno al netto del 740. Nonostante cio' ho cambiato, perche' ritenevo che il "posto fisso" fosse comunque meglio del ricatto implicito. Ho pagato salato il mio passaggio ad una attivita' lavorativa protetta dall'articolo 18. E quando ho cominciato, non ci sono mai uscito. Ho cambiato posto di lavoro da allora, ma me ne sono ben guardato dall'accettare un altro posto che non mi offrisse la stessa certezza per il futuro. E' un diritto che mi sono conquistato.
Mi e' andata bene, perche' sono stato favorito nel trovare il modo per conquistarmelo dal periodo particolarmente fiorente di vacche grasse (circa 17 anni fa).

Ora sembrerebbe che quel diritto me lo vogliano improvvisamente negare.

Ebbena, questo mi sembra assolutamente una pretesa priva di ogni buon senso.

Tanto per cominciare vorrei dire due paroline a quei lavoratori che non sono gia' oggi coperti dall'articolo 18 e che trovano ingiusto che io invece lo sia.

Con coloro che ragionano cosi' e che appartengono alla prima categoria (cioe' quelli che non sono lavoratori dipendenti perche' hanno SCELTO di non esserlo) sono particolarmente arrabbiato.
Quando io ho chiuso la partita IVA e sono andato a lavorare come dipendente, come dicevo sopra, ho rinunciato a parte del mio reddito per avere la protezione dell'articolo 18. In quei tempi c'era un mio amico-collega con le stesse condizioni lavorative, che ha fatto la scelta opposta. Ha deciso di mantenere la sua partita IVA e di diventare un vero lavoratore autonomo. Cioe' di procacciarsi altri clienti, oltre a quello per cui lavoravamo, e di aumentare il prezzo delle sue prestazioni in base a usuali leggi di marketing e di domanda/offerta. Il datore di lavoro, almeno per un po', e' stato costretto a dare piu' soldi a quel mio amico nonostante avesse ridotto notevolmente il tempo che dedicava a quell'azienda. Dopo un po' il mio amico si e' fatto un giro di clienti e ha chiuso il contratto con quell'azienda. Quel mio amico ha accumulato soldi durante il periodo di vacche grasse. Se li meritava, che' era bravo. Ma anch'io ero bravo. Lui pero' si e' riuscito a comprare una Porsche, e io no (non che avessi mai avuto voglia di comprarne una, ma se ne avessi avuto voglia non ne avrei avuto i soldi per farlo). Poi le vacche grasse sono finite, ma non so che fine ha fatto il mio amico. Ci siamo persi definitivamente di vista prima. Ora io dico. E' vero che i lavoratori autonomi come quel mio amico non sono tutelati come me dall'articolo 18. Ma e' anche vero che in tutti questi anni sono stati pagati profumatamente per aver rinunciato a quella tutela. Hanno fatto le cicale? Tutto loro diritto, ma ora non pretendano di avere la dispensa piena come noi formichine.

Piu' solidale mi sento nei confronti di chi invece ha una partita IVA finta, cioe' e' a tutti gli effetti lavoratore dipendente, ma vive sotto la spada di Damocle del licenziamento facile ed immediato. Condizione particolarmente critica, coi tempi di vacche magre che corrono.
Ebbene, se ci fosse un'azienda che offrisse loro un lavoro analogo a tempo indeterminato (peccato che al momento non ci sia!), loro potrebbero mandare a fanculo il datore di lavoro ricattatore e accettare, seppure con una riduzione di reddito, il lavoro protetto. Io glielo consiglierei.
Il punto e' che se noi eliminassimo il concetto di articolo 18, quell'alternativa non ce l'avranno mai. Non avranno mai l'ambizione di trovarsi un posto a tempo indeterminato protetto dal licenziamento selvaggio, perche' il licenziamento selvaggio diventerebbe la regola. Non succederebbe nemmeno in tempi di auspicate vacche grasse, e loro continuerebbero a viverla con una spada di damocle appesa sopra la cucuzza. E per di piu' il loro lavoro come lavoratore autonomo (seppur finto) varrebbe di meno, perche' la situazione secondo cui un lavoro protetto dall'articolo 18 paga di meno di uno non protetto, vista dall'altro lato della medaglia, dice che un lavoro non protetto paga di piu'. In altre parole se oggi per farti accettare un lavoro a partita IVA (non protetto) ti devono pagare di piu' di un equivalente lavoro protetto, domani il lavoro protetto non ci sara' piu', e quindi non ci sara' alcun motivo per cui ti dovrebbero pagare di piu' (ragionamento ovviamente che varra' solo quando le vacche torneranno a ingrassare - ma ci possiamo sperare ancora?).
Il ragionamento della riduzione dei diritti in favore di un aumento di flessibilita' e' quello di dare accesso al mio posto di lavoro a chi ha un contratto di lavoro non tutelato. Per farlo bisogna che il mio datore di lavoro fosse libero di licenziarmi per assumere uno di loro al mio posto. Quindi, per poter offrire il mio posto a uno di loro bisogna fare che il mio posto di lavoro non sia piu' tutelato. E se cosi' diventasse, che attrattiva avrebbe il mio posto di lavoro nei confronti di un posto di lavoro equivalente che gia' oggi non e' tutelato? Apriamoci gli occhi, cavoli. Quello che manca, in un periodo dove ci sono piu' lavoratori di posti di lavoro e' la tutela del lavoratore, non la flessibilita'. Quindi estendiamo le tutele a chi lavora e non ce le ha, non riduciamole a chi ce le ha!

Infine una cosetta anche ai datori di lavoro.
Ci avete offerto un contratto che noi abbiamo sottoscritto. Nel contratto c'era scritto l'articolo 18, e in fondo alla pagina, prima dello spazio per apporre la nostra firma, c'era scritto l'ammontare del nostro stipendio.
Noi abbiamo firmato, e anche voi l'avete firmato. E' un contratto come un altro, e le due firme indicano chiaramente che entrambe le parti sono costrette a rispettare le clausole scritte nel contratto. Se non ci fosse stata la clausola dell'articolo 18 noi non avremmo firmato, a meno che voi aveste corretto al rialzo la cifra del nostro stipendio. Ora che abbiamo firmato, quel contratto non puo' essere modificato solo perche' siamo in tempi di vacche magre, perche' quella firma noi l'abbiamo posta proprio perche' prevedevamo l'eventualita' di entrare in un periodo di vacche magre.

Insomma, e' un po' come un'assicurazione. Ti dicono: paghi 10 euro all'anno e io ti risarcisco l'intero costo dell'auto dovesse pioverci un elefante sopra. Naturalmente e' molto improbabile che un elefante piova proprio sopra alla mia auto, quindi sembrerebbe che l'assicurazione stia facendo un affare. Io pero' mi sento piu' tranquillo a sottoscriverla, perche' ho sempre avuto una fobia degli elefanti che piovono sopra le auto.
Ecco, dopo un po' un elefante piove sopra la mia auto. In quel momento l'assicurazione non puo' dirmi che non puo' risarcirmi il danno accampando la scusa che l'assicurazione contro la pioggia di elefanti vale solo quando non piovono elefanti. Non c'era scritto nel contratto. Nel contratto c'era scritto esattamente che nella pur remota possibilita' che piovesse un elefante sulla mia auto, l'assicurazione avrebbe dovuto risarcirmi.

E' la stessa cosa. E' chiaro che il datore di lavoro non mi licenzierebbe mai quando c'e' lavoro per me. Io non ho mai pensato che l'articolo 18 servisse per proteggere il mio posto di lavoro quando c'era lavoro per me. Ho invece pensato che l'articolo 18 servisse per fare in modo che il datore di lavoro non mi licenziasse quando invece avrebbe voluto licenziarmi, cioe' quando il lavoro scarseggia.
Passo la mia vita portandomi l'ombrello sul braccio tutto il giorno come un londinese e poi quando piove... Eh, no, caro Dario, ti diamo il permesso di aprire l'ombrello solo quando non piove. Allora ditemelo prima, che l'ombrello lo lascio a casa. Che' portarmelo dietro chiuso e' una rottura anche per me, e aprirlo quando non piove non serve a niente!

martedì 16 settembre 2014

Monica Dellavedova Quintet - Cartoons in Jazz


In questo video alcuni stralci dello spettacolo "Cartoons in Jazz", del Monica Dellavedova Quartet/Quintet.
Sabato sera, ad Azzate (Va), ho assistito ad una replica. Un concerto straordinario. Un grande jazz con molto buon gusto. Unica critica che si poteva trovare riguarda il pubblico. A volte la musica risultava un po' dispersiva perche' credo sia molto difficile riuscire a coinvolgere il pubblico in una situazione del genere (una serata organizzata dal Comune all'aperto, nel giardino di una villa storica, a ingresso libero). E se il pubblico non e' coinvolto, il jazz ne patisce. Mi sono immaginato lo stesso concerto in un pub, o in un teatro, e mi sa che sarebbe venuto decisamente molto meglio: in questi altri contesti il pubblico e' piu' consapevole. Non e' che ci va solo perche' non c'e' niente di meglio in TV.

Bravissimi gli strumentisti. Mi e' piaciuto particolarmente il solo di batteria in Crudelia Demon. Naturalmente mi e' piaciuta ogni singola nota suonata dal pianista (e' anche il mio strumento e quindi riesco ad apprezzarlo piu' degli altri strumenti - certo non ho mancato di provare molta invidia riguardo al livello tecnico).

Ma soprattutto Monica e' stata meravigliosa.

Conosco Monica da circa trent'anni. Non la vedo da almeno venti. Abbiamo suonato insieme in tre occasioni, quando per qualche ragione la cantante del mio gruppo era assente. Suonando con lei sono rimasto letteralmente senza fiato. Ricordo anche qualche lacrima che il mio orgoglio maschile mi costringeva a nascondere. Con lei c'era un feeling tale che mi sembrava di avere, oltre alla mia tastiera, la sua voce come se fosse un altro strumento tra le mani. Una protesi del mio corpo.
Era come se fossi io stesso a cantare, salvo che lei canta divinamente, mentre io non ne sono mai stato capace.

Sono passati vent'anni, non abbiamo piu' suonato assieme, ne' ci siamo rivisti, ognuno per la sua strada. L'ho ritrovata per caso su Facebook. E io che ho sempre sostenuto l'inutilita' dei social network!

Ora, dopo vent'anni che non suono sto cercando faticosamente di rimettermi in pista. Ma di questo parlero' in un altro post.

venerdì 29 agosto 2014

I don't like Mondays

di Stefania Hauser
Il lunedì non è un giorno come un altro. Non che gli altri siano migliori, semplicemente il lunedì è noioso. Non so perché, ma lo penso da sempre. Di certo, lo penso da trentacinque anni e voglio sperare che a San Diego non ci sia una fottuta anima viva che l’abbia scordato. Anzi no, sono sicura, lo ricordano eccome: hanno costruito anche un monumento per non dimenticare.

Me l’hanno fatto ripetere sino alla nausea, raccontare per filo e per segno ogni secondo di quella mattina del 29 gennaio come se ci fosse granché da dire, poi, a parte che era lunedì e che dalla finestra della mia camera, come ogni giorno, potevo vedere quel mucchio chiassoso di bambini entrare a scuola, sempre gli stessi, sempre quel mucchio chiassoso di bambini delle elementari. Cosa avessero da dirsi, ogni volta, non l’ho mai capito. Forse nemmeno loro erano elettrizzati all’idea d’entrare in classe, altrimenti perché alle otto e venti erano ancora tutti fuori? A San Diego non fa mai freddo, nemmeno d’inverno, però ricordo che l’erba del prato era ghiacciata perché c’erano delle bambine che accarezzavano il prato con la stessa eccitazione con cui avrebbero toccato un istrice, se solo ne avessero mai visto uno. Io non amo gli animali, ma nemmeno li odio. Mi fanno schifo i topi: tutte dicono che qui ce ne sono ma io non ne ho mai visto uno. Scarafaggi, quelli sì: alle volte li schiaccio, altre ci gioco, altre ancora fingo di non vederli, dipende.

Ho perso il filo del discorso. Mi succede sempre, come se non potessi stare troppo tempo con lo stesso pensiero in testa. A scuola mi addormentavo, infatti. Però mi piaceva fare fotografie e ho anche vinto un premio. Adesso non ne faccio più, però sono molto brava a guidare un carrello elevatore e cose di questo genere. Non serve che lo dica, ma lo faccio lo stesso: so anche sparare. In vita mia ho avuto una sola arma, un fucile semi-automatico calibro 22, un regalo di mio padre per Natale. Avevo chiesto una radio e non me l’aspettavo proprio, anche perché quello stesso anno i servizi sociali avevano detto ai miei genitori che mi divertivo a prendere gli uccelli a pallettoni con una pistola ad aria compressa e a scuola mi avevano accusata di atti di vandalismo e furto con scasso. Dicevano anche che avevo tentato il suicidio, che ero depressa e che dovevo essere messa in uno di quegli ospedali psichiatrici, ma mio padre non gli ha creduto. Vivevo con lui, da quando i miei avevano divorziato. Io e mio padre siamo molto amici: mi viene a trovare tutti i sabati. Fa cinque ore di macchina, ogni volta. Nel 2001, quando il mio avvocato ha presentato la prima richiesta di libertà sulla parola, hanno messo agli atti che avevamo un rapporto malato: una mia dichiarazione in cui parlavo di sodomia. Resto in carcere. Di me e dei miei fratelli, a mia madre, non è mai interessato un granché. I vicini, invece, non facevano altro che impicciarsi e dicevano che molestavo i cani e i gatti del quartiere. L’ho già detto, io non odio gli animali.

I miei colori preferiti sono il rosso e il blu. Ecco perché il primo bersaglio è stato un bambino con un giubbotto blu. È stato facilissimo, avevo il mirino.

Non mi sono fermata: il Ruger ha un caricatore da dieci cartucce, al primo sparo si è ricaricato e ha armato il cane automaticamente, per cui tanto valeva continuare. L’impressione che ho avuto è che nessuno si fosse reso conto di cosa stava succedendo, però io a scuola l’avevo detto che avrei fatto qualcosa di sensazionale e che sarei finita in televisione.

Con il secondo colpo ho preso una bambina. Era davvero facile, sembrava di sparare a delle papere in uno stagno. Il lunedì ha iniziato a movimentarsi e i bambini a gridare. È uscito il preside, gli ho sparato. È uscito il custode, gli ho sparato. È arrivata la polizia: uno di loro si è precipitato dai bambini, ho sparato anche a lui.

Venti minuti. Trentasei colpi. Undici centri. Otto bambini, tre adulti. Due morti.

Avevo sedici anni ma mi hanno processato come un’adulta. Pena: da venticinque anni all’ergastolo. Ecco perché posso chiedere la libertà sulla parola.

Sono passati trentacinque anni. Non ricordo la sparatoria, ma so che sono stata io a sparare. Delle sei ore successive, sempre nella mia camera, ho parlato al telefono con qualcuno ma non ricordo cosa ho detto. Dicono che mi hanno chiesto il perché di tutto questo e che io ho risposto perché non mi piacciono i lunedì. Non sono così convinta d’averlo detto, invece mi ricordo d’avere detto che era stato divertente sparare ai bambini. Mi domando, poi, perché ci deve sempre essere un perché? Mi annoiavo, questo sì.

In carcere mi danno pastiglie per curare la depressione e l’epilessia: le prendo, non mi costa niente farlo.

Nel 2005, quando il mio avvocato ha presentato la seconda domanda di scarcerazione, è stata messa agli atti una mia nuova dichiarazione: il 29 gennaio avevo iniziato a bere birra già dalle sette della mattina e così, hanno tirato fuori il discorso della premeditazione. Durante il primo interrogatorio, ventisei anni prima, non ricordo d’averlo detto e dagli esami del sangue non risultava traccia di alcol. Nemmeno di droga, se è per questo. Il fatto è che poco tempo prima dell’udienza ho rotto con la mia compagna e con un temperino mi sono scritta sul collo coraggio e orgoglio: per me era solo un tatuaggio, ma per loro è la dimostrazione che non so gestire lo stress. Resto in carcere.

Nel 2009, quando il mio avvocato ha presentato la terza domanda di scarcerazione, ho chiesto scusa a tutti quanti. Resto in carcere.

Nel 2019, quando il mio avvocato presenterà la quarta domanda di scarcerazione, non ho proprio idea di cosa dirò.
(copiato e incollato qui da Nazione Indiana)

martedì 26 agosto 2014

L'economia di Mario Draghi e quella dell'ultimo pirla

Da Wikipedia, alla voce "Mario Draghi":

In un documento sulle dichiarazioni patrimoniali e reddituali rese dai titolari di cariche elettive e direttive di alcuni enti, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 12 della legge 5 luglio 1982 n. 441, risulta che il manager vanti per il 2010, redditi annui pari a 1,021 milioni di €.

Dunque. Supponiamo di prendere un miliardo di euro dal suo reddito. Non e' che la mia strategia lascerebbe Mario Draghi in mutande: gli rimarrebbero ben 21 milioni di euro!
Supponiamo poi di prendere me e altre venticinquemila persone con un reddito simile al mio, e di redistribuire equamente quel miliardo. Significherebbe, se ho fatto i conti giusti, raddoppiarci lo stipendio.

Io, con uno stipendio doppio, potrei permettermi di realizzare tutti i miei sogni e di avanzarne ancora per gli extra. Non mi dimenticherei nemmeno delle associazioni benefiche.
Per prima cosa troverei una cascina da ristrutturare e accenderei un mutuo per comprarla. Poi comincerei a preoccuparmi di ristrutturarla. Metterei su una azienda agricola e un agriturismo, con annesso ristorante.
Certamente non metterei via i soldi sotto la mattonella. Farei "girare l'economia".
Mario Draghi, invece, di quei soldi che ne fa? Dubito che metterebbe in piedi venticinquemila agriturismi.
Quindi mi pare molto semplice: la ricetta per far ripartire l'economia e' di darci un po' di quei soldi.

Naturalmente non e' che metto in discussione il valore di Mario Draghi. Io in confronto sono solo l'ultimo pirla... forse... non so... e' difficile giudicare...
Ma anche se fossi effettivamente l'ultimo pirla, spendendo quei soldi per metter su un agriturismo, metterei comunque in moto l'economia, credo.
E, comunque, dov'e' che sta scritto che l'ultimo pirla non abbia anche lui il diritto di realizzare i propri sogni?