martedì 8 giugno 2010

La bottiglia D

È da qualche tempo che ho in mente questa storia.
L'occasione di scriverla mi è capitata incontrando di nuovo, dopo moltissimo tempo, una carissima amica di vecchia data, e ricominciando con lei la corrispondenza interrotta anni fa - questa volta con strumenti elettronici. In una mail le ho abbozzato il racconto, e, autocompiacendomi del risultato, mi è venuta voglia di rielaborarlo e pubblicarlo per cercare di capire se sono in grado di scrivere. Di scrivere davvero, intendo.
Spero di non peccare di superbia cimentandomi in un mestiere che non è il mio (anche se mi piacerebbe che lo fosse). Se quello che segue ha un qualche valore, vorrei dedicarlo proprio a quella mia amica.

I due vigneron

Gli appoggia teneramente le dita sul dorso della mano. È una mano nodosa e segnata dal sole e dal lavoro, quella di Jean, abbandonata sopra il tavolo di legno. Virginie alza lo sguardo sul suo viso, cercando il luccichio dei suoi occhi, concentrati nel nero di quella notte racchiusa nella cornice della finestra. Lui volta lo sguardo su di lei in un sorriso affettuoso e denso di emozioni. "Raggiungimi a letto" gli sussurra lei, alzandosi e congedandosi rispettosa di quel momento intriso di emozione. "Arrivo tra un attimo" promette lui, guardandola allontanarsi. Lei gli sorride ancora, rinnovando silenziosamente l'invito, mentre richiude piano la porta. Jean torna a scrutare il buio, assorto nei propri pensieri.

La mente rincorre il tempo ripercorrendo la sua lunga vita.

Lui e Marcel, l'amico di sempre, inseparabile come un gemello siamese, sono cresciuti insieme, hanno sfidato il duro lavoro e l'arte della vinificazione. Alla fine hanno ottenuto la soddisfazione di chi sa di aver creato qualcosa di importante. Hanno imparato a riconoscere le annate migliori, e con amore hanno curato ogni singolo tralcio di vite e ogni fase della produzione. È una azienda molto piccola, senza ambizione di crescita, perché non hanno mai badato al successo e al denaro.

Jean rivive matrimonio con il suo unico amore, Virginie, in doppia cerimonia insieme a quello di Marcel. Fu una tappa naturale di quel percorso di vita. Jean era emozionato al punto che, dopo vari tentativi, Virginie dovette intervenire per annodargli la cravatta. Marcel, dal canto suo, non riusciva nemmeno ad abbottonarsi la camicia. Quanto erano raggianti le spose, mentre chiacchieravano tra loro per stemperare la tensione! Di tanto in tanto Virginie si voltava verso Jean per cercare conforto in uno sguardo rubato. E Diane, bellissima come un bocciolo, i capelli biondi carezzati dalla brezza, scaricava la tensione sull'anello di fidanzamento. Scuote la testa, ora, Jean, pensando all'immenso vuoto che la prematura morte di Diane ha lasciato nel cuore dell'amico, e dentro l'anima di tutti loro. La ricorda nelle risate e nei volteggi delle danze durante la festa nuziale nel grande portico della masseria. Gli amici ubriachi erano meglio di un film, a regalare loro sincerità, fino a tarda ora.

E poi arrivò la prima notte di nozze. Fu il concepimento di Amelie. Marcel e Diane non avevano avuto figli, ma con Jean e Virginie sono sempre stati un'unica famiglia, e Amelie era quindi anche un po' loro. Jean la ricorda da bambina giocare in vigna, e da ragazza, con i primi fidanzati impacciati. Ancora gli risuona in testa la sua risata coinvolgente quando lanciava in aria il tocco, in un gesto liberatorio, assieme ai compagni di studi, appena dopo il conferimento della laurea. Virginie e Diane avevano pianto al matrimonio di lei, mentre Jean e Marcel erano riusciti a stento a trattenere le stesse lacrime quando con fierezza l'accompagnarono insieme all'altare. Ora lei vive giù in città, e fa il medico all'ospedale.

Ancora adesso d'estate Amelie viene in visita con i marmocchi, a riempire la vigna di vita e di risa. Ed è sempre difficile per tutti quando poi, alla fine della vacanza, se ne tornano a casa, lasciando la vigna così, solenne, silenziosa ed eterna come l'hanno trovata. Jean adora quella pace.


Finalmente si alza, chiude la finestra e raggiunge Virginie a letto. L'abbraccia da dietro, lei stringe il suo braccio sul proprio ventre. Prima di addormentarsi rivolgono un ultimo pensiero a Marcel che si sente russare nell'altra stanza.


L'abitudine sveglia Jean all'alba. Quando apre la finestra della camera vede Marcel intento a nutrire le galline. L'amico si interrompe un istante sentendosi osservato. Si sorridono.

Si incontrano intorno al tavolo della veranda. Jean porta una pagnotta, una fetta di buche-chevre e una caraffa di caffè. Consumano la colazione in silenzio, osservando il fresco risveglio dell'infinita campagna. Virginie li guarda con tenerezza dalla finestra.

Con una pacca sulla spalla Marcel interrompe la pausa. È ora di andare ai campi, per una giornata di duro lavoro nel saggio silenzio della antica vigna.


Al sole di mezzogiorno Virginie li vede arrivare nella verandina accanto al casotto degli attrezzi, il tavolino già apparecchiato con della pasta calda e della frutta fresca. Jean e Marcel si lavano e si siedono, affamati. Jean bacia teneramente la moglie su una guancia. Mentre i due uomini consumano il loro pranzo Virginie racconta loro la sua mattinata, tra le faccende di casa e il rigoverno degli animali da cortile. "Ha telefonato Amelie" dice "stanno tutti bene e ci abbracciano". I tre si guardano, pensando a quanto lontana sia quella realtà ma nello stesso tempo a quanto sia forte il filo che li tiene legati, quasi che l'affetto crei una realtà parallela e distorta, dove le distanze siano ridefinite. "Che stava facendo, di bello?" chiede Marcel "Era in ospedale: giro visite..."

La prima a muoversi è proprio Virginie, mentre Jean dà un paio di tiri alla pipa e Marcel sgranocchia una mela. Marcel getta il torsolo nella fossa di compostaggio e riempie la sua borraccia e quella dell'amico. Salutano Virginie che ritorna a casa, mentre loro, alzati i cappelli di paglia in testa, si dedicano ai lavori pomeridiani. Jean va nell'aia con un forcone tridente, Marcel si dirige al frutteto con un enorme cesto di vimini. Jean passa la giornata a rivoltare la paglia stesa a seccare, pensando ad Amelie: sembrava ieri quando da bambina come una farfalla svolazzava nei campi con la sua gonnellina colorata. Ma dov'era finito tutto quel tempo?


Il sole allunga le ombre e Jean torna alla cascina. Invece di salire in casa come suo solito, scende in cantina. Non è sorpreso a trovare lì Marcel, seduto sopra ad una delle due botticelle adibite a seggiole, accanto ad una terza più grossa. Marcel lo sta aspettando in un appuntamento silenzioso. Sulla botte grossa due calici ballon, una bottiglia e un tire-bouchon.

Non c'è nessuna ricorrenza, nessuna celebrazione ne' anniversario da festeggiare. Semplicemente è l'ora giusta, e loro lo sanno. Il momento che hanno atteso per venticinque anni, gli anni in cui il prezioso nettare riposa in una bottiglia impolverata, simile a tutte le altre e incasellata come tutte le altre nel portabottiglie. Giorno dopo giorno, per venticinque anni, si sono preoccupati di applicare un quarto di giro alla bottiglia. L'hanno accudita e conservata gelosamente nel loro cuore, oltre che nel cuore della loro cantina. Ed ora è giunto il momento giusto. Marcel ha l'onore di stappare. Si alza in piedi e afferra il cavatappi. Con gesti sicuri ma precisi taglia la capsula mettendo in evidenza il tappo. Esamina il tappo e sorride all'amico. Delicatamente infila la spirale del cavatappi e gira con forza misurata. Aggancia la prima tacca della leva al bordo del becco della bottiglia e solleva. Misura la forza per testare l'efficacia del tappo. Aggancia la seconda tacca e stappa definitivamente la bottiglia. Guarda ansioso l'amico. Si porta al naso il cavatappi con il tappo infilato, annusa chiudendo gli occhi e rimane immobile ad apprezzarne gli aromi. Quando riapre gli occhi vede lo sguardo interrogativo, ma paziente dell'amico e gli porge silenziosamente il cavatappi. Anche l'amico apprezza il tappo. I due si guardano a lungo senza fiatare. Finalmente Marcel prende delicatamente la bottiglia e ne versa mezzo dito nel bicchiere dell'amico, poi ne versa una quantità analoga nel proprio, avendo l'accortezza di far roteare la bottiglia lungo il suo asse per rompere la goccia. Tenendo la base del calice con due dita, lo fanno roteare in modo da ossigenare il prezioso liquido. Poi sollevano contemporaneamente i calici e apprezzano il colore attraversato dalla luce della candela. È rosso scuro, quasi bruno, ma ancora limpido e trasparente. Le lacrime sulle pareti del calice sono perfette, ne' troppo fitte, ne' troppo rade. Il profumo del vino comincia a diffondersi nella stanza, distinguendosi dall'odore di umidità della cantina e sovrapponendosi ad esso. I due amici si portano il bicchiere al naso e, di nuovo, chiudendo gli occhi, aspirano gli aromi che il vino sprigiona, dopo averli conservati nell'intimità della bottiglia per tutti questi anni. Gli angoli della bocca si alzano in un sorriso appena percettibile. Sanno che stanno provando la stessa sensazione, e non parlano, per non contaminare la solenne concretezza di quell'istante con la vacuità della sua descrizione.

Finalmente poggiano il bicchiere di nuovo al tavolo. Si guardano, poi contemporaneamente lo sollevano, tenendolo delicatamente per lo stelo e se lo portano alla bocca. Poggiano le labbra e accolgono giusto un piccolissimo sorso. Lo tengono in bocca e lo fanno scivolare in modo da bagnare tutta la cavità orale e apprezzare ogni sfumatura. Gli occhi, prima chiusi in questo gesto, contemporaneamente si aprono e ora sono sbarrati negli occhi dell'altro con una passione quasi carnale per la perfetta amalgama di aromi che stanno assaporando. Nessun atteggiamento falsamente plateale da snob sommelier, solo i gesti sicuri e precisi di veri esperti intenditori consumati ma accresciuti dalla propria esperienza di vita. Si sorridono con gli occhi, mentre ingoiano il vino. Un vero sommelier l'avrebbe sputato, ma loro sanno che non è questa misera fine che deve fare un Grandissimo Vecchio: è una questione di rispetto. E poi il loro scopo non è di catalogare, ma dare degno compimento al loro lavoro, alla loro arte, a ciò a cui hanno creduto e fermamente hanno continuato a credere per un quarto di secolo. Quella non sarà una recensione su una rivista patinata, ma un segreto da coltivare nei loro antichi cuori. E anzi, il fatto che siano i soli ad apprezzare fanno di quell'esperienza un evento ancora più prezioso.


Appoggiano i bicchieri alla botte e, a vederli, dimostrerebbero loro stessi venticinque anni di meno, quasi avessero appena collocato la bottiglia nella rastrelliera da invecchiamento. Guardano la bottiglia, guardano i bicchieri che contengono ancora un po' di vino. Si sorridono. Si alzano. Si danno una pacca sulla spalla, complimentandosi a vicenda, in silenzio. Jean si bagna due dita della destra con la saliva e le richiude sulla fiamma della candela, spegnendola. Poi prende il tridente che aveva appoggiato al muro. Marcel raccoglie il cesto pieno di pere appoggiato al pavimento. Il primo apre per far passare l'amico. Poi passa lui e si chiude la porta alle spalle.

Solo il Grande Vecchio, appoggiato alla botte, sparisce nell'oscurità vicino ai bicchieri semivuoti, al cavatappi e alla candela spenta, nel silenzio infinito della cantina.


Depositati gli attrezzi, portate le pere in dispensa, una doccia e Virginie li aspetta già a tavola con un piatto di minestra.

Ed è già tramonto.


Dopo cena Virginie si gode il meritato riposo al fresco sulla sedia a dondolo in veranda, perdendosi in ricordi e calzini da rammendare, i vigneron tornano alla cantina.

Ché l'esperienza ormai è consumata, ma sprecare un Grande Vecchio così significherebbe non rendergli onore.

Si sorridono e siedono di nuovo alle loro posizioni di prima. Stavolta è Jean che versa. Di nuovo si gustano il Grande Vecchio, che nel frattempo si è ossigenato ed il sapore ha avuto modo di svilupparsi. Gesti sicuri nuotano nella loro soddisfazione rossa.

Quando finiscono di godere del secondo assaggio, si guardano complici. "E adesso?" chiede Jean, violando un silenzio pieno di venticinque anni di significato. "E adesso non rimane che la bottiglia D", risponde l'altro, sorridendo consapevole dell'inutilità di una risposta a coronare un'altrettanto inutile domanda retorica.

Il loro sguardo lentamente scorre le bottiglie schierate alla tenue luce della candela, e si focalizza su una in particolare, all'apparenza identica alle altre, al cui collo è aggrappata una cordicella a legare un'etichetta ingiallita dal tempo, che riporta semplicemente la lettera D. D come "definitivo". Il capolavoro definitivo della loro vita, racchiusa in quella bottiglia. Il massimo cui si può sperare di tendere. La perfezione assoluta. Il loro sguardo si sposta di nuovo sugli occhi dell'altro e si sorridono. "La bottiglia D" sussurra Jean, come parlando tra sè e sè, e nel frattempo solleva di nuovo il Grande Vecchio e versa un'altro bicchiere all'amico e a sè. Lentamente si gustano questo terzo bicchiere. Alla fine tappano infilando il sughero a forza, sciacquano i bicchieri, spengono la candela e se ne tornano di sopra. A dormire presto che domani il lavoro ci chiama. Si augurano la buonanotte. Jean raggiunge Virginie a letto, che gli sussurra interrogativa "il Grande Vecchio...?" "...magnifico" risponde lui, abbracciandola. Lei sorride e chiude gli occhi, orgogliosa della propria vita.


L'indomani, dopo il lavoro Jean e Marcel si ritrovano, come in un implicito appuntamento, nella cantina. Si versano un altro dito del Grande Vecchio e si siedono a meditare. Il vino se lo gustano, sì, ma nei loro pensieri c'è la bottiglia D. Sono consapevoli della potenza del Grande Vecchio, ma sanno che è niente confronto a quello che sarà bottiglia D. La tensione a quel che verrà dopo motiva l'esperienza del Grande Vecchio. Il Natale che giustifica l'eccitazione della vigilia. "La bottiglia D" sussurra Marcel, perso un questi pensieri. L'altro, perso anche lui negli stessi pensieri annuisce appena con il capo.


Passa qualche giorno e il Grande Vecchio finisce, e con lui la quotidianità dei taciti appuntamenti.


Dopo molte lune, senza averlo deciso prima, Jean e Marcel si ritrovano contemporaneamente in cantina, sapendo che è gunto finalmente il momento. La loro vita li ha condotti a quel punto d'attrazione spazio-temporale. E prima di loro la vita dei loro avi, dell'umanità intera, li ha portati al compimento della perfezione Definitiva, che si realizza quando il vino è pronto e quando loro sono pronti per stapparlo. La bottiglia D.

Si siedono con una solennità ancora maggiore, stappano la bottiglia D con l'accortezza di un chirurgo che opera a cuore aperto. Impiegano ore ad annusare il tappo. Non bevono nemmeno, ma versano il vino nel decanter. È necessario ossigenarlo per almeno 24 ore, per poterlo apprezzare. Fanno roteare il decanter per cinque volte, e poi l'appoggiano alla botte. Coprono la bocca del decanter con un panno di lino bianco lavato con acqua ma senza sapone. L'emozione bagna i loro occhi, mentre si guardano, leggendo la propria vita nel volto dell'altro. Alla fine se ne vanno eccitati. Virginie legge lo sguardo del marito "...è arrivato il momento, vero?". Non ha bisogno di risposta, ma poggia una mano su quella di lui consegnandogli la propria presenza al suo fianco, nel momento chiave di una intera vita.


Il giorno dopo, ad esattamente 24 ore di tempo, si ritrovano, con due bicchieri diversi da quelli che avevano usato per il Grande Vecchio, Due ballon anche questi, con l'imboccatura un po' più piccola e la pancia un po' più grossa. Jean versa D delicatamente, tenendo il decanter per il collo con una mano, e reggendone la pancia con l'indice dell'altra. Ha un colore bruno limpido. Lacrime un po' più fitte scendono sulle pareti dei ballon, segno che la gradazione alcolica è maggiore di quella del Grande Vecchio.

Annusano.

Assaggiano.

Le papille gustative sono in tensione. Le lingue dirigono il nettare in certi anfratti della bocca che una persona normale non sa nemmeno di possedere. Ha un sapore magnifico. Sa di terra, di fiori, di legno, di letame, di un'infanzia vissuta in campagna, di un amico cresciuto come un fratello. Di una sposa che sembra di conoscere da sempre, di una festa in vigna con gli amici ubriachi, a ballare fino a notte. Sa di una figlia, di pannolini da cambiare, di sonagli e giocattoli, di mattine ad accompagnarla alla fermata dello scuolabus. Sa di una festa di laurea, di un matrimonio e di marmocchi a scorrazzare per la vigna. Sa di lavoro duro nei campi, e di mille Grandi Vecchi. Sa di futuro, un futuro da ricominciare da capo, con lo stesso entusiasmo. Sa di vita, una vita che solo adesso Jean e Marcel sono pronti a vivere, una vita che si è sviluppata in questa bottiglia piano piano, con il trascorrere degli anni e con cura instancabile.

La bottiglia D, Definitiva, lo scopo della loro vita. Hanno la consapevolezza che il mondo non è che la tensione a qualcosa di più grande. Ci sarà forse un'altra bottiglia D, ma i nostri non se ne curano, perché ora sanno che lo scopo non è un obiettivo, ma il cammino per raggiungerlo.

8 commenti:

Artemisia ha detto...

Guarda, guarda che poesia che ti viene dal nostro cinico Dario! Complimenti! Mi sembra ben scritto. In questo rapporto quasi "carnale" con questo vino ti ci rivedo.
Ma perche' non farlo assaggiare anche alla povera Virginie?

dario ha detto...

:-) Cinico? Non mi pare di esserlo!
Grazie, Artemisia, sapevo che avresti apprezzato l'impegno.
E sapevo anche che avresti detto che ti e' piaciuto ;-) indipendentemente dal fatto che ti sia piaciuto eheh...

Perche' non far assaggiare il vino a Virginie?
Risposta facile: Virginie e' astemia" (tanto l'ho inventata io, che mi frega?)
Risposta complessa: ci ho pensato anch'io, e sarebbe stato giusto farlo nel contesto della storia, ma non so se metaforicamente ci sarebbe stata.
Considera pero' che se c'e' molta R in Virginie, e anche un po' in Diane, il personaggio che le si applica maggiormente e' Marcel.
Virginie in effetti e' l'unico nome che ha qualche attinenza con la realta'. E' la versione femminile francese del nome di mio nonno (ti ricordi? Quello delle albicocche). Mio nonno e' un po' una nuvoletta che mi segue da sopra una spalla.
La mia amica di cui parlo nell'incipit e' il Grande Vecchio, e la bottiglia D e' me stesso (D come Dario, ovviamente).

Nella prima stesura della storia non avevo dato i nomi. In effetti gli unici personaggi erano Jean e Marcel, ma quando la storia e' diventata piu' complessa mi e' toccato battezzarli per non fare troppa confusione.

Artemisia ha detto...

Cominciando dal fondo: interessante l'idea di identificarsi con la bottiglia. Non ci avevo pensato.

Che Virginie fosse astemia l'ha detto subito anche mio marito al quale ho raccontato il racconto. Invece vedi, io, identificandomi con Virginie, mi sono subito sentita esclusa "dalla festa". :-)

Non ho detto che mi e' piaciuto. Ho detto che e' scritto bene. :-P

Beh, forse "cinico" non e' la parola giusta, mi rendo conto. Pero' un po' dissacrante lo sei, no? O forse sono impressioni di chi non ti conosce abbastanza.

dario ha detto...

Capisco che e' una visione un po' maschio-centrica, ed e' in fondo per quello che e' venuto in mente anche a me che forse Virginie avrebbe gradito partecipare.
Virginie, pero', sembra piu' come una parte integrante di Jean, mentre Diane e Amelie sono solo espedienti per raccontare la storia. Non e' forse piu' comodo immedesimarsi in Jean o in Marcel (anche nei casi in cui cio' dovesse comportare un cambio di sesso)?

La bottiglia D in realta' non sono esattamente io, ma e' la mia proiezione del se'. In altre parole e' come Jean vede se stesso. Troppo confuso?

Artemisia ha detto...

Sai, l'immedesimazione e' un meccanismo istintivo che scatta da se'. Non e' che uno/a sceglie con chi immedesimarsi.
Quanto alla proiezione Dario-Jean-bottiglia, semplicemente non l'avevo colta ma non sono brava per queste cose.

dario ha detto...

;-) no, certo, scherzavo... e' evidente che a uno/a gli capita quello/a in cui immedesimarsi, mica se lo sceglie... un po' come i parenti.
E' che non mi aspettavo che ti immedesimassi in Virginie. Certo che fa provare una certa emozione solo il fatto che cio' sia successo.
Mi rendo conto, la storia e' debole e andrebbe arricchita.
Diciamo che faro' altri esperimenti in futuro, cui sarai sicuramente invitata, senza impegno.

Mmmh... Credo che fosse piuttosto evidente che io mi descrivo in Jean (il mio egocentrismo non puo' che identificarmi nel protagonista eheh). Quanto alla bottiglia D... be'... forse sono io che non ho sviluppato abbastanza bene il concetto...

;-) mi lusinga la tua partecipazione, grazie.

Artemisia ha detto...

E' un piacere... tra una pratica ed un'altra....
Allora tu sei Jean, NON la bottiglia?
Aaah, ora mi torna di piu'! E questo era evidente, come ti ho scritto gia' dal primo commento. Invece se tu fossi la bottiglia (cosa possibile ed anche originale) si potrebbero aprire tutta una serie di significati simbolici: la tua maturazione (25 anni), "il prezioso nettare che giace nella bottiglia impolverata", "un sapore magnifico" (WOW!) ...
sai quanti significati ci possono trovare!
Beh, a dire la verita', piu' che un racconto lo vedrei bene come sceneggiatura di un film.
Mo' torno a produrre :-(

dario ha detto...

Be'... io sono Jean, si'.
Ma nel racconto la bottiglia D e', durante la maturazione, la ricerca dello scopo della vita di Jean (e Marcel), e dopo averla stappata lo scopo si rivela essere la ricerca stessa, o in altre parole la vita spesa a costruire. Infatti il vino sa di questo e quello, cioe' delle cose che gli sono successe nella vita.

Okay... ;-) mi sa che quando si descrive una metafora se ne corrompe l'effetto finale.