venerdì 18 maggio 2012

Scelte di vita

Il mio papa' proviene da una famiglia agricola, ma, con notevoli sacrifici da parte dei suoi, riusci' a diplomarsi in una scuola professionale per disegnatori meccanici.
Dopo il diploma fu lavoratore dipendente presso una azienda meccanica in qualita', appunto, di disegnatore-progettista.
Quando io ero tanto piccolo che i ricordi si sono cancellati (cioe' circa quarantacinque anni fa) decise che la vita da lavoratore dipendente non faceva per lui. Cioe' che, invece che lavorare per altri (dividendo la ricchezza che produceva tra le sue tasche e quelle del datore di lavoro), preferiva lavorare per se' stesso (intascando il ricavato di tutto quello che produceva).
Cio' che fece fu utilizzare le conoscienze accumulate durante gli studi e il lavoro per progettare e costruire una macchina per la torcitura di filato sintetico (per intendersi quello che poi serve per tessere le calze di nylon), e poi utilizzarla per produrlo. Ovviamente per fare cio' ci mise dei soldi (indebitandosi) e delle energie, accettando di sobbarcarsi il rischio di perdere tutto, se l'operazione non avesse funzionato. La nostra fortuna e' che invece ha funzionato, a volte a rilento e con molti sacrifici, a volte meno.
L'azienda operava in un piccolo laboratorio allestito al piano inferiore di casa nostra, e, per dare un'idea della dimensione del business, ci lavoravano solo lui e (part time) la mamma.
Poi arrivo' la crisi degli anni 70. La produzione, nel suo piccolo, funzionava a meraviglia, ma il mercato si ridusse parecchio e per i piccoli artigiani come mio padre cominciarono tempi molto duri. Alla fine "la fabbrichetta" aveva un solo cliente per il filato che produceva (piccole quantita' ma qualita' superiore), il quale decise di affrontare la crisi di liquidita' pagando in natura (cioe' prodotti finiti: calze e altri articoli di biancheria sintetica). Mio padre si prese una licenza di vendita ambulante e comincio' a girare casa per casa a cercare di piazzare quegli articoli. Nel frattempo, poi, dovemmo trasferirci, perche' il rumore prodotto dalla macchina superava i limiti consentiti. Costruimmo una villetta con capannone annesso in zona industriale. Dalle ceneri della crisi, che abbiamo subito duramente, e' sorta una attivita' rinnovata che si e' via via ingrandita, assicurandoci un tenore di vita via via migliore, ed ovviamente finendo di pagare i debiti contratti per l'azienda e per la villa. Mio fratello ed io ci diplomammo, e poi laureammo e poi ognuno prese la propria strada. I miei, chiusa l'attivita', ora vivono di pensione e di un certo reddito proveniente dagli affitti del capannone e di un paio di appartamenti acquistati per investire il sovrabbondante.

Non si trattava di una famiglia ricca, ma nemmeno povera. Piuttosto appartenente a quella categoria di "piccoli imprenditori", che oggi sembra essere cosi' colpita dai suicidi.

Mio padre, nella sua vita, ha avuto la fortuna di poter scegliere, e ha fatto la sua scelta. Consapevolmente. Ha accettato di correre determinati rischi (mio fratello ed io eravamo troppo piccoli per avere titolo decisionale, ma mamma e' sempre stata al suo fianco), in cambio della liberta' di inseguire il proprio sogno. Si e' preso la responsabilita' delle proprie scelte, che comprendevano l'eventualita' che le cose potessero andare molto male. Eventualita' tutt'altro che remota, infatti nel periodo piu' buio papa' ha dovuto, come secondo lavoro, andare letteralmente a vendere le mutande porta a porta, altrimenti sarebbe stata la bancarotta.
In cambio della quotidiana assunzione consapevole di questo rischio, quel che ha ottenuto e' stato, col tempo, un migliore stile di vita, per se' e per la sua famiglia.
Un po' come quando si scommette, insomma. Piu' la puntata e' rischiosa, piu' si vince se la ruota gira dalla parte giusta.

Io invece non ho mai creduto nel mercato, nel capitalismo, nell'opportunita', nella libera impresa. Ho sempre pensato che il lavoro non fosse altro che uno strumento per trasformare un determinato tipo di ricchezza che si e' in grado di produrre in un altro che si e' in grado di consumare.
Io, per esempio, faccio programmi per PC. Non sono commestibili. Sono pero' molto utili per scambiarli in denaro, e il denaro e' utile per acquistare il pane con cui campo.
Ho sempre creduto nella collaborazione. Una azienda e' fatta da persone che collaborano per produrre un bene, e nessuno puo' prendersi singolarmente il merito del prodotto finito, perche' tutti hanno partecipato per produrlo. Io sono molto bravo a fare programmi, ma se non ci fosse una azienda che con questi programmi ci fa qualcosa, il mio lavoro sarebbe totalmente inutile, a me e al resto del mondo.
Rispetto alla scelta di papa', la mia comporta meno rischi. Non c'e' la possibilita' che il mio lavoro vada male. O meglio, si' che c'e', ma e' una eventualita' che posso controllare. Non e' mai dipeso da una scommessa su un futuro incerto.
E questa maggiore sicurezza la pago salata: le varie aziende in cui ho lavorato hanno tratto profitto dal mio lavoro, e quindi il mio lavoro vale di piu' del pane che posso comprare con il salario che mi frutta. E questo valore in eccesso e' servito a ingrassare l'imprenditore che ha reso possibile la trasformazione dei miei programmi per pc in pane. E' servito, in altre parole, a creare quella ricchezza in piu' che rende appetitoso il rischio da parte dell'imprenditore.

Ora mi si dice che il lavoratore deve accollarsi la sua parte di rischio d'impresa. Perche'? Per via della crisi.
Praticamente l'imprenditore, in tempi di vacche grasse, puo' risicare uno stile di vita migliore in cambio del rischio che le cose, per lui, possano andare male in tempi di vacche magre. Io non lo farei, ma lui pare che abbia proprio voluto farlo. In tempi di vacche grasse poteva decidere di non accollarsi quel rischio, e di fare come me, vivendo con uno stile un po' piu' sobrio. Ma ha preferito rischiare e fare l'imprenditore.
Che senso avrebbe, mi chiedo io, se ora rifiuta di pagarne il conto con la scusa che siamo in tempi di vacche magre? Bel Rischio! Sarebbe un po' come scommettere, intascarsi i soldi se si vince ma pretendere il rimborso della posta se si perde. Cosi' scommetto anch'io!
Eppure quelli me lo dicevano, negli anni 80 e 90. Ammettevano che loro si', erano privilegiati, ma che dovevano assumersi il rischio di impresa, mentre io potevo godermi sonni tranquilli. Che loro erano pieni di preoccupazioni per mandare avanti la baracca mentre io, una volta timbrato il cartellino in uscita, mi facevo i fattacci miei. Questo fa la differenza tra un'utilitaria e una maserati, tra un appartamento e una villa con piscina, tra una vacanza nella Bassa e una alle maldive, tra una moglie che rimane a casa a sgobbare come casalinga e una tutta firmata che va a spettegolare dal parrucchiere lasciando a casa la filippina che se ne occupi. Tutto questo, caro imprenditore, e' pagato con il rischio che te la pigli in quel posto se va male.

Quindi, ora che va male te la pigli in quel posto e te ne stai zitto, eccheccazzo!

Senti alla tv di un suicidio di un imprenditore, e poi di un altro, e poi di un altro ancora. E il cuore ti si stringe, perche' la quantita' di tristezza per compiere un gesto del genere e' sufficiente a inondare di lacrime intere popolazioni. Massimo rispetto da parte mia per ognuno di questi singoli gesti.
Ma se ora decidi di farla finita perche' le cose vanno male, mi vien da dire che quel rischio non te lo sei mai assunto.
Ah be'... pero' i benefici te li sei pappati! Troppo comodo.

E questo non e' che vale solo per quegli imprenditori cui escono i soldi dal buco del culo (invero quelli mi sa che sono gli unici che se la caveranno, e che continueranno a vivere la loro vita privilegiata, come se niente fosse). Ma anche per i "pezzenti" del mio livello.
In passato ho lavorato (mio malgrado) con contratti che non erano tutelati dall'articolo 18. La partita IVA, ad esempio. C'erano degli svantaggi e dei vantaggi. Il vantaggio sostanziale e' che il saldo tra retribuzione lorda e tasse forniva un netto di gran lunga superiore a quello di un contratto a tempo indeterminato. Lo svantaggio e' che non si era vincolati ad una azienda, e quindi niente articolo 18, niente ferie retribuite eccetera. Quando si e' proposto il bivio io ho scelto la formula "meno rischi = meno soldi". Mi chiedo secondo quale logica quelli che hanno fatto l'altra scelta possano chiedere che l'articolo 18 venga esteso anche a loro, o che, in alternativa, venga abolito anche per noi.

La mia solidarieta' va a tutti i lavoratori precari, che la possibilita' di una scelta non ce l'hanno e non ce l'hanno mai avuta (morire di fame non e' un'opzione). Ma se uno che ha scelto consapevolmente di fare il libero professionista si lamenta della precarieta' di condizioni che vive adesso, senza l'articolo 18 che lo protegga, be', mi sembra che stia allo stesso tempo insultando anche i precari. Quelli veri.
Quando ho chiuso la partita IVA per andare a fare il lavoratore dipendente, ho dovuto rinunciare a parte del mio stipendio. Quegli stessi che lamentano di non avere la protezione dell'articolo 18 allora mi davano del pirla.

Aggiungerei infine che l'articolo 18 tutela anche chi non ce l'ha.
Abolendo l'articolo 18, per l'azienda sarebbe piu' conveniente un lavoratore dipendente piuttosto che una collaborazione con una azienda individuale esterna. Lo assume, lo fa lavorare finche' gli serve, e poi gli molla un bel calcio in culo.
Quindi verrebbe da dire che i lavoratori a partita IVA dovranno riconvertirsi in lavoratori dipendenti, con stipendi piu' bassi e nessuna tutela. Siccome ti possono dare un calcio in culo quando vogliono, ti terranno a fare lavoro da schiavo per due lire.
Aspettando che tornino le vacche grasse - se mai torneranno.

3 commenti:

dario ha detto...

Un brutto giorno, oggi, per chi crede che i diritti dei lavoratori siano una importante conquista democratica

Artemisia ha detto...

Ho sempre ammirato quelli come tuo padre. A me invece hanno sempre inculcato il mito del posto fisso.

dario ha detto...

Mmh... non so... nella sua visione della vita probabilmente mio padre e' stato davvero un grande.

Pero' io ci vedo l'artigiano come quello di uno che costruisce qualcosa con le sue mani e alla fine e' soddisfatto di quello che ha fatto, tipo il Bartolomeo Pestalozzi che batte il ferro. Un lavoro come quello di mio padre... mah... la materia prima e' filato di nylon rigido e il prodotto finito e' filato di nylon elasticizzato, e nel mezzo papa' si faceva un culo cosi'... Forse sono insensibile io, ma l'orgoglio che si prova a guardare e palpare una rocca di filo di nylon elasticizzato mi pare piuttosto relativo.