mercoledì 29 dicembre 2010

Funzione ricorsiva

In informatica viene definita "ricorsiva" una funzione che, nello svolgimento del proprio algoritmo richiama se stessa per calcolare alcuni dei suoi valori. Si tratta di uno strumento informatico molto potente, ma naturalmente la chiamata di quella funzione dall'interno di se stessa deve essere condizionata da valori di input ragionevoli, altrimenti la funzione continuera' a richiamare se stessa all'infinito finendo per non riuscire a calcolare un bel niente.

Insomma, io dico che tu dici che lui dice che io dico che loro dicono che il telegiornale dice che le previsioni del tempo dicono che domani ci sara' il sole. Ci vuole una terminazione: domani ci sara' il sole, che e' il punto di quello che si vuole dire. Il resto spiega solo il ragionamento utilizzato per raggiungere quella conclusione.

Belpietro dice che qualcuno dice che qualcun altro, per conto di Fini, sta organizzando un mancato attentato contro Fini stesso per fare in modo che vengano accusati i berlusconiani, cosicche' Fini ne tragga vantaggio rubando punti di consenso popolare a Berlusconi.
Ora, in post precedenti ho ampiamente dimostrato la mia "antipatia" nei confronti di Fini, ma questa faccenda mi sembra davvero un po' troppo articolata perche' sia comprensibile al grande pubblico, me compreso. E compresi anche i lettori di Libero.

Voglio dire.
Belpietro dice che se dovesse avvenire un attentato, seppur mancato, nei confronti di Fini, sarebbe Berlusconi, in quanto suo avversario politico, ad essere accusato. E, per l'opinione pubblica, questo sarebbe un punto a favore di Fini.
Giustamente Belpietro aggiunge che - l'ho sentito con le mie orecchie al TG -, se ci fosse invece realmente un complotto dei berlusconiani per organizzare un attentato a Fini, aver rivelato questo complotto non farebbe altro che proteggere Fini. Ora che si sa che esiste questa trama, se ci fosse un attentato a Fini, la gente penserebbe che sia colpa dei finiani. E quindi sarebbe pubblicita' negativa per Fini. Nessun sano di mente finiano organizzerebbe una cosa del genere per dare la colpa a Berlusconi, visto che sarebbero incolpati i finiani stessi.

Uhm... pero'... la funzione e' ricorsiva! Ce l'ha suggerito lo stesso Belpietro!

Se e' vero che un finto attentato a Fini non sarebbe affatto a favore di Fini perche' dimostrerebbe vera la tesi di Belpietro, che punta preventivamente il dito contro i finiani, e' anche vero che quell'attentato sarebbe invece a favore di Berlusconi, perche' il dito dell'opinione pubblica sarebbe puntato comunque contro i finiani.
Quindi Belpietro implicitamente sta suggerendo ai fedelissimi di Berlusconi di organizzare un attentato contro Fini, perche' tanto la responsabilita' ricadrebbe sui finiani, e quindi sarebbe tutto vantaggio per Berlusconi.

Io non e' che ho un blog che puo' influenzare l'opinione pubblica, ma se cosi' fosse ovviamente questo post fornirebbe una buona ragione ai finiani per organizzare effettivamente un quasi-attentato contro Fini. Infatti, se Fini subisse questo quasi-attentato, la gente, fidandosi di questo post, penserebbe che e' una manovra dei berlusconiani per dare la colpa ai finiani di voler far credere che i berlusconiani vogliano sbarazzarsi di Fini.

Ma l'opinione pubblica, leggendo il precedente paragrafo, penserebbe che la colpa di quel quasi-attentato e' dei finiani.
Ed evidentemente, visto che la colpa ricadrebbe sui finiani, potrebbe essere che in realta' questo sia tutto frutto della mente diabolica dei berlusconiani, proprio per far ricadere la colpa sui finiani stessi. Quindi ci sarebbe da pensare che i berlusconiani abbiano organizzato un quasi-attentato a Fini per far credere all'opinione pubblica che l'hanno organizzato proprio i finiani per far credere all'opinione pubblica che invece l'hanno organizzato i berlusconiani per far ricadere la colpa sui finiani dell'attentato, allo scopo di far credere che i berlusconiani volessero sbarazzarsi di Fini.

Il che farebbe sospettare che la colpa di un eventuale quasi-attentato a Fini sia da attribuire ai berlusconiani per dar la colpa di....

Oddio... ma ci stiamo dimenticando che il fine finale e' la fine di Fini!

Accidenti! Siamo alla fanta-propaganda. Si fa politica creando finte accuse contro qualcuno per incolparlo di presunta intenzione di fare qualcosa. A me pare che ci sia qualcosa di profondamente anti-etico in questa faccenda.

giovedì 23 dicembre 2010

Auguri

In effetti, del Natale non mi e' mai importato un fico secco.
L'aspetto consumistico della questione mi importa poco.  E' un aspetto che appartiene a tutto il resto dell'anno, non vedo perche' a Natale dovrebbero diventare tutti piu' altruisti e sostenibili. Se un giorno dovessi decidere di diventare piu' buono, be', non sara' di certo a Natale.
Che mi da' fastidio e' quell'esigenza di felicita' ad oltranza che la gente si aspetta di leggerti in faccia quando ti augura con impostata naturalezza e solenne ingenuita' Buon Natale e Felice Anno Nuovo. E tu l'assecondi, perche' sarebbe strano il contrario.

Anche quest'anno gli auguri ai miei - loro ci tengono - li faro' per telefono, mentre io me la passero' con R, Mr. Bentley e Maddie davanti al caminetto acceso, con un buon pranzo per rispettare la tradizione, e se c'e' bel tempo ce ne andremo anche a fare una camminata con le ciaspole.
Ecco, in effetti una cosa positiva il Natale ce l'ha. Le ferie. Ci faremo qualche giorno in montagna, sperando nel bel tempo per qualche escursione.

Ricordo un Natale insolito alle isole, auto-invitati ad un Xmas-party a casa di un amico, a mangiare finger food (sit down, relax, eat, eat eat...), all'ombra dell'albero di papaya cercando la conversazione nel raffazzonato Pidgin English che prende forma solo dopo la terza birra. Ecco quello che mi piacerebbe fare a Natale, ma anche per quest'anno meglio economizzare.

E allora buone vacanze a tutti, e se vi tocca lavorare, conservatevi l'augurio per la prima occasione disponibile.

lunedì 20 dicembre 2010

Fassino, sindaco di Torino

Uhm. Suona bene, fa anche rima... sara' questa la buona ragione che cercano gli elettori di Torino per votare il PD? In effetti sembra una buonissima ragione!!!
Ecco l'articolo dell'Unita'.
A me pare che la manovra sia un buon metodo per consegnare definitivamente il nord alla Lega.

mercoledì 15 dicembre 2010

The day after?

A dir la verita', Massimo Cacciari non e' che mi piaccia molto.
Pero' nell'intervista pubblicata da La Stampa ha detto cose che condivido.

"...La responsabilita' immensa e' tutta del Pd. Un partito nato male, o forse mai nato. Dopo la caduta del governo Prodi c'erano tutte le possibilita' per lavorare ad un'alternativa forte al berlusconismo usurato. Avevamo cinque anni davanti, ma e' mancata completamente la classe dirigente, la strategia, la cultura politica e un agenda nuova per il paese"
Gia'. Come farsi cullare dall'idea di una alternativa se l'alternativa non c'e'? L'unica e' sperare che Berlusconi cada. Per puro antiberlusconismo. Anche io, ovviamente, mi sarei messo a saltare di gioia se Berlusconi fosse stato sfiduciato. Ma poi? Che cosa diavolo sarebbe successo?

"Il piu' grande partito di opposizione, nel bel mezzo della deflagrazione del centrodestra, e' rimasto ai margini della partita, senza mai incidere. Paradossale."
Appunto, la caduta di Berlusconi sarebbe stata una vittoria di Fini, il fascista, il pupillo camerata dell'amico del socio di Hitler. Mica di Bersani. Certo, lo scopo era buttare giu' Berlusconi. E forse la partita non e' ancora persa. Ma la Politica dovrebbe essere qualcosa di piu', credo. Perfino Casini, a cui non affiderei mai il portafoglio, estremista cattolico da prima repubblica, in questo periodo riusciva senza sforzo a dire cose condivisibili e a mettersi in gioco per una alternativa. Ho avuto invece la netta sensazione che in questo Parlamento la Sinistra non esistesse proprio. Come un bambino escluso dalla partita di pallone che insiste "voglio giocare anch'io... voglio giocare anch'io...".

"...il Pd non ha mai saputo scalfire l'egemonia forza-leghista al nord, maturando un vero autonomismo e una capacita' di relazione con gli attori del capitalismo diffuso. Così come non ha mai costruito una relazione strategica con l'Udc. Forse aspettava cadesse nelle sue braccia per semplice antiberlusconismo. Allora non conoscono Casini..."
Si'. Perche' qui, nel Profondo Nord, la Lega spopola perche' fornisce una risposta alla fame dove non c'e' cibo decente. La Sinistra, semplicemente, sul territorio, non esiste.
Ma dove diavolo vogliamo andare? Fa schifo che Berlusconi ottenga la vittoria pagandola, e fa ancora piu' schifo che ci sia qualche deputato che baratti il futuro dell'Italia per qualche soldo. Ma se non ci fosse stata questa prostituzione, Berlusconi avrebbe pur perso solo per una manciata di voti. E come si pensava di governare, allora? Il fascista Fini come presidente di un governo di rifondazione della democrazia? O, peggio Casini? Oppure era meglio andare ad elezioni anticipate? E chi avrebbe vinto? Il PD?!?

Ha ragione Cacciari: "...mi auguro che il premier collassi ma per senso di verita' devo ammettere che al momento non vedo alternative..."

giovedì 9 dicembre 2010

Il mandato degli Italiani

Saro' scemo.
Ma quando mi si dice che un governo alternativo a Berlusconi tradisca il mandato degli italiani, davvero, io non riesco a capire di che cosa si stia parlando.
Il ragionamento e' che siccome Berlusconi e' stato votato dalla maggioranza degli italiani, lui e' quello che deve governare, e qualunque alternativa, per giunta una non approvata da Berlusconi stesso, e' antidemocratica.
Ci sarebbe da discutere che cosa si intenda per democrazia. Se valgono solo le elezioni la democrazia degenera nella dittatura della maggioranza, o meglio, in questo caso, nella dittatura di chi ottiene la maggioranza dei voti. Si' perche' a me pare che parecchia gente (molta di piu' a sinistra, ma molta anche a destra) abbia votato non per, ma contro. Ad oggi, se mi chiedessero se preferisco Berlusconi o Bersani, francamente risponderei Bersani, ma non certo per suo merito.
Oppure, come preferirei io, la democrazia e' da intendersi regolata da determinate regole.
Cioe', anche se fosse che il Presidente della Repubblica assegni il mandato a qualcuno, in ogni caso rispettando le regole della costituzione, allora continuerei a ritenere che si tratti di una scelta democratica, anche se si tratta di uno diverso dalle indicazioni degli elettori.
Oppure, in alternativa, si puo' constestare la Costituzione dicendo che non e' democratica. Pero', il rispetto delle regole mi pare un punto a favore della democrazia, non contro.

Insomma, ti vengono a dire che siccome la maggioranza ha votato per questo Governo, allora questo Governo ha diritto (e dovere) di governare.

Ma come? Da quando, alle Politiche, si vota per il Governo?

Io credevo di essere andato a votare per il rinnovo del Parlamento, mica del Governo.
E' invece il Presidente della Repubblica che nomina il Presidente del Consiglio, il quale nomina i Ministri.
Il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, il Presidente del Consiglio, non e' che hanno liberta' assoluta, perche' poi qualunque decisione del Governo deve essere approvata dal Parlamento.
Il Parlamento e' sovrano, ed e' votato dagli Italiani. E questo mi pare molto democratico.
Il voto popolare e' mediato, perche' tramite di esso si stabilisce chi si deve sedere sulle poltrone del Parlamento, e questi decidono se sostenere o no il Governo.
Supponiamo che il Governo venga sfiduciato e che il Presidente della Repubblica nomini un nuovo Presidente del Consiglio, il quale formi un nuovo Governo.
Cio' puo' avvenire, ovviamente se questo Presidente e il suo Consiglio dei Ministri hanno il supporto del Parlamento, perche' altrimenti anche questo nuovo Governo verrebbe immediatamente sfiduciato.
Ma se il Governo e il suo Presidente hanno la fiducia del Parlamento, il quale e' votato dalla maggioranza degli Italiani, allora, per la proprieta' transitiva, il governo puo' vantare il mandato implicito degli elettori. Se Napolitano nominasse Paperino, significherebbe che Paperino rappresenta implicitamente la maggioranza degli elettori, perche' e' supportato dalla maggioranza dei Parlamentari.

Quindi quando si sostiene che Berlusconi ha ricevuto il mandato direttamente dagli elettori, mi pare che si stia cercando di inquinare le acque. Berlusconi ha ricevuto il mandato dal Presidente della Repubblica dietro suggerimento dei Parlamentari, che sono stati eletti dagli Elettori (con una legge "porcheria", d'accordo, ma tant'e'). E quindi tale mandato e' valido solo fino a che venga eventualmente votata la sfiducia.

lunedì 6 dicembre 2010

Per quelli che hanno tendenza a dimenticare...

Dunque, cominciamo dalle origini.
Questo signore qui, a sinistra nella foto,
e' Adolf Hitler. Quello stesso che teorizzo' ed applico' la persecuzione di alcune minoranze etniche e sociali della Germania del primo dopoguerra: omosessuali, zingari rom e sinti, pentecostali, testimoni di geova, oltre che ebrei.
Nella stessa foto appare, sulla destra, l'italico Duce, Benito Mussolini. Forse un po' piu' mite del primo, ma anche lui non proprio solidale con le minoranze etniche. Fu quello che fece firmare le leggi razziali al re, che istitui' campi di concentramento in italia. Sembra storia remota, ma, andando indietro di solo un paio di generazioni, i miei nonni hanno da parte loro patito il regime militare dittatoriale di quell'ometto che, visto con gli occhi di oggi, sembra piu' solo una caricatura di se stesso.

Poi c'e' stata una guerra mondiale. E, verrebbe da credere, come ci hanno insegnato da piccoli, che la vittoria dei partigiani e degli alleati ha sigillato sotto una lapide ai caduti quelle atrocita'. Che il fascismo e il nazismo siano ormai cosa morta.
Ma, dopo la fine della guerra, in Italia, sorprendentemente il fascismo continuava a prosperare. In queste foto,
il signore piu' anziano, coi baffi, giusto per ricordarlo a quelli che non se lo ricordano, e' Giorgio Almirante, fondatore del Movimento Sociale Italiano, gia' fascista durante il primo dopoguerra. Fa un po' specie ricordarlo parlamentare della Repubblica, se si pensa all'Almirante fascista, firmatario del Manifesto della razza, collaboratore della rivista La difesa della razza. Prendo da Wikipedia due significative citazioni: "il razzismo è il piu' vasto e coraggioso riconoscimento di se' che l'Italia abbia mai tentato. Chi teme ancor oggi che si tratti di un'imitazione straniera non si accorge di ragionare per assurdo: perché è veramente assurdo sospettare che il movimento inteso a dare agli italiani una coscienza di razza [...] possa servire ad un asservimento ad una potenza straniera" (1938); "Noi vogliamo essere, e ci vantiamo di essere, cattolici e buoni cattolici. Ma la nostra intransigenza non tollera confusioni di sorta [...] Nel nostro operare di italiani, di cittadini, di combattenti – nel nostro credere, obbedire, combattere – noi siamo esclusivamente e gelosamente fascisti. Esclusivamente e gelosamente fascisti noi siamo nella teoria e nella pratica del razzismo" (1942).

In quelle foto, l'altro tipo e' Gianfranco Fini, che prese le redini dell'MSI dopo Almirante definendolo "un grande italiano" e "il leader della generazione che non si e' arresa". Da allora tante cose sono passate. L'MSI e' diventato AN e poi e' confluito nel PdL. Fini ha rappresentato il mezzo con cui Berlusconi e' riuscito ad andare al potere. E anche quello che ad oggi sembra essere la causa della morte politica di Berlusconi, con la fondazione di Futuro e Liberta'. L'alleanza e' fruttata ai fascisti lo sdoganamento nella democrazia.
In tutto questo io ci vedo una certa continuita'. Il Fascismo si e' insediato nella vita di tutti noi ed e' sopravvissuto da Mussolini ad Almirante, e con Fini e' ancora li'.

Oggi il problema e' Berlusconi, si'. E non mi dispiace l'idea di un governo "di unita' nazionale", allargato tra le sinistre, i finiani e l'UDC, allo scopo di superare Berlusconi e l'era del berlusconismo, un governo "di transizione" che ci consenta di arrivare a elezioni serie che facciano da base alla ricostruzione della democrazia (anche se mi pare che proprio di Fini sia la responsabilita' complice di tutto questo).
Mi va bene gettare una secchiata d'acqua fresca sul passato per dare una bella lavata al pavimento prima di cercare di costruirci sopra un futuro accettabile.

Ma non prendiamoci in giro: questo signore, un fascista era, un fascista e' e un fascista sara'.

martedì 23 novembre 2010

Ma quanto pigliano in TV?

Ho letto un articolo su Yahoo Italia, di Grazia Cicciotti, intitolato "Quanto guadagnano i conduttori?".
Ci sono gli stipendi di alcuni conduttori TV. Simona Ventura, Pippo Baudo, Fabio Fazio, Giovanni Floris, Carlo Conti, Serena Dandini, Pupo, Massimo Giletti, Osvaldo Bevilacqua, Antonella Clerici. Tra questi, quello che piglia meno si fa 250mila euro all'anno.
Duecentocinquantamila.
Considerando il mio stipendio lordo, io ci metto piu' di sei anni.
Quello che piglia di piu' e' Fabio Fazio. Due milioni.
Quattro miliardi di lire.
All'anno.
Quasi cinquanta volte il mio RAL.
Lui, in un anno, prende quanto prendo io in cinquant'anni.

Mi ha stupito vederlo al top della classifica. La Ventura, la Clerici, Carlo Conti ad esempio mi sembrano molto piu' "personaggi", e in quanto tali meno sostituibili.

Ora, io non e' che voglio fare i soliti discorsi ritriti e chi predica bene razzola male... e da che pulpito viene la predica...
Mi viene da chiedermi, ma io, se mi offrissero quattro miliardi di lire all'anno, cosa farei? Probabilmente me li prenderei. Probabilmente ne darei un po' qua e un po' la alle persone a cui voglio bene. Probabilmente ne darei un po' ad associazioni in cui credo... chesso'... ad esempio Emergency.
Ma la maggior parte di quei soldi me li terrei. Ci comprerei i miei sogni. E poi, quando lo giudicherei sufficiente (probabilmente un paio d'anni), smetterei di lavorare, per dedicarmi ad attivita' che mi piacciono, e al diavolo la necessita' del giusto compenso.
Poi magari la sete di ricchezza nutrirebbe se stessa e, quand'anche fossi ricchissimo, giudicherei di volerne di piu', ma queste sono solo ipotesi speculative.

Tra i commenti all'articolo ce ne sono tre emblematici nella loro banalita', e per questo li riporto. Crazytrain064 dice:
Sì ma Fazio è "comunista" ahahahaha, come Santoro.......ahahahahahah! In miniera!
Champe_wwe:
Io non capisco perchè se uno è bravo e guadagna molto gli si vada contro a testa bassa. Capisco che la maggior parte abbia avuto fortuna, ma la componente bravura è assolutamente presente. Chi prende 500 euro al mese lo fa perche è facilmente sostituibile, chi ne prende molti di più non lo è altrettanto. Questa è la verità. Invece di andare contro a chi è bravo nel suo lavoro e fa di questo la sua fortuna economica, andiamo contro a chi ruba o comunque, non guadagna onestamente cio di cui vivere.
Dgambacurta invece commenta:
mi domando perche' proprio il giorno dopo in cui Fazio fa il record di ascolti per la rai con uno spettacolo originale lo si debba denigrare dicendo : "guardate Fazio quanto prende, vi sembra giusto?". Beh io dico guardate l'inquisito Verdini coordinatore del PdL quanto prende come parlamentare per smistare favori bancari ai suoi amichetti

Al primo risponderei che se la regola e' che i "comunisti" devono essere poveri, alla fine la razza si estinguerebbe presto. In realta' un vero "comunista" non vuole essere povero in un mondo di ricchi. Vuole invece che la ricchezza venga livellata per tutti, compresi quelli non "comunisti". Se uno propone una certa idea e fa un sacco di soldi per questo, cosa dovrebbe fare, secondo Crazytrain064? Rinunciare a quei soldi? Oppure cambiare opinione? Criticando il "comunista" perche' ha un superstipendio, equivarrebbe a giustificare il caso in cui un "non-comunista" percepisse altrettanto. Ipocrisia? Non e' l'ipocrisia argomento di discussione, ma il superstipendio.

Al secondo invece risponderei che si', Fazio si merita quello che piglia (e qui mi vengono in mente tutti i discorsi fatti sulla meritocrazia), nel senso che l'ambiente e' quello della libera concorrenza. Probabilmente io (come del resto il caso ben piu' sfigato dell'operaio della Fiat in cassa integrazione) non posso lamentarmi, perche' sono liberissimo di propormi in sua vece per lo stesso stipendio, ma perderei sicuramente il match. Cio' non toglie pero' che la constatazione che uno prenda due milioni (DUE MILIONI!) all'anno mentre ci sono intere famiglie ridotte alla fame dimostri inequivocabilmente una enorme ingiustizia sociale.

Secondo me il commento davvero interessante e' il terzo. Certo, Fazio fa il record di ascolti e questo giustifica un'ottima remunerazione, mentre Verdini fa i soldi che fa (tanti o pochi che siano) perche' e' stato nominato, senza il consenso popolare. Certo Fazio si ripaga ampiamente il proprio compenso in termini di entrata pubblicitaria per i suoi show, mentre Verdini...?
D'altra parte e' pur vero che un vero servizio sociale (che sia un prodotto televisivo o la partecipazione politica) non dovrebbe essere remunerato in funzione dell'entrata economica.

Quello che pero' mi pare degno di nota e' che un compenso cosi' elevato in realta' e' per sua natura suscettibile di critiche. Se uno predica la giustizia sociale e poi palesemente la sfrutta a suo vantaggio fa la figura dell'ipocrita.
Quello che uno dice, per me, ha un valore a prescindere da quanto piglia a finemese.
Se uno mi dicesse che Berlusconi e' un criminale io sarei d'accordo con lui. Se poi scoprissi che colui che me lo dice piglia un sacco di soldi per dirmelo, io sarei comunque d'accordo con il concetto che Berlusconi e' un criminale, ma comincerei a dubitare dell'onesta' di colui che me lo dice. Sono piu' portato a credere nell'onesta' intellettuale di colui che dice una cosa gratis piuttosto che di colui che si fa pagare fior di quattrini per dirla.

In conclusione se Fazio avesse percepito, diciamo, centomila euro, avrebbe comunque fatto una vita di gran lunga migliore della mia, ma ci avrebbe decisamente guadagnato in credibilita'.
Credo.

Che' poi, diciamocelo chiaro, se uno prende due milioni all'anno, dal punto di vista umano, non ha proprio nessuna scusante nei cofronti di un'altro invece non riesce a sfamare i proprio marmocchi.

martedì 16 novembre 2010

Tie'!



Tra Boeri, Pisapia, Onida, Sacerdoti, quello che mi piaceva di piu' e' quello che ha preso meno voti (Sacerdoti, solo 719). Anche Onida mi piaceva (9036 voti).
Sono molto contento che abbia vinto Pisapia (45.36%).
Ma soprattutto sono contento che Boeri (40.16%) abbia perso le primarie per la corsa a sindaco di Milano.
Scempio annunciato quello di Expo 2015, contestato dalle sinistre e da chi a Milano ha un minimo di buon senso. Ma Boeri, l'"archistar" entra a far parte nella squadra targata Moratti per il progetto. E il PD che fa? Tra i quattro sostiene proprio Boeri. Ma 'sta volta, ai milanesi, il PD non e' riuscito a farli fessi.


Ecco un paio di blog "di parte":
Alessandro Robecchi
Destra? Nein, Danke!

venerdì 12 novembre 2010

Il Cigno Nero


Ho da qualche giorno terminato di leggere Il Cigno Nero di Taleb.
L'ho trovato un po' noioso. Certamente interessante nei contenuti, ma lo stile e' davvero pesante.
Non c'e' mai un filone narrativo, nemmeno negli esempi. A parte un paio di casi, l'autore non si concede descrizioni di persone o situazioni. Diciamo che e' all'opposto di me, che tendo a farcire i miei discorsi con metafore o parabole anche del tutto artificiose e poco credibili, ma che mi aiutano a spiegarmi meglio. Suscita inoltre antipatia quando si esprime come colui che sa di avere la verita' in tasca, e che, di conseguenza, ritiene qualunque altra opinione sbagliata.

Sostanzialmente la tesi di Taleb si puo' ridurre cosi': Ci sono delle situazioni in cui non si sa come andranno le cose, ma si sa che la probabilita' di come possono andare e' limitata entro certe leggi. Ad esempio sappiamo che, lanciando la monetina, la probabilita' che esca testa e' uguale a quella che esca croce, per cui a seguito di un certo numero indefinito di lanci molto probabilmente testa sara' uscito circa la meta' delle volte (quindi il numero di vittorie sara' bilanciato dal numero di sconfitte). La probabilita' di vincere (o perdere) molto decresce sempre di piu', fino ad arrivare alla minima probabilita' del caso in cui escano tutte teste (o tutte croci).
Dopo aver constatato che con cento lanci di circa meta' delle volte esce testa, e l'altra meta' croce, anche se non fossi in grado di determinare la legge che governa il centounesimo lancio so che il contributo dell'esito di quel lancio sulla media sara' poco influente. Se invece di cento faccio mille lanci, il milleunesimo sara' ancora meno influente. Ed in ogni caso, piu' aumento il numero di lanci piu' mi avvicino alla media.
In altre situazioni invece e' piu' difficile misurare la probabilita' che avvenga un determinato evento, e nonostante cio', tale evento e' determinante nel calcolo della media. Se prendiamo ad esempio l'andamento dei mercati finanziari dal 1 gennaio al 10 settembre 2001 costuiremmo una legge che verrebbe totalmente soppiantata dall'evento finanziario (pur improbabile) scatenato dai fatti dell'11 settembre.
Per fare un altro esempio, se prendo 100 persone a caso e calcolo la media dei loro redditi, tale media puo' essere totalmente sovvertita dal 101' campione, se si tratta... chesso'... di Bill Gates. Non sarebbe la stessa cosa se considero la statura di 100 persone. Viene una media... diciamo... di 1.75m. Mentre Bill Gates puo' tranquillamente avere un reddito pari alla somma degli altri 100 campioni, anche prendendo l'uomo piu' alto del mondo certamente non puo' avere la statura paragonabile alla somma degli altri 100 campioni (175 metri). Di conseguenza, per alcuni eventi, come la monetina, come la statura delle persone eccetera, l'influenza di un evento sulla media e' piccola e decresce aumentando il numero di campioni. Per altre cose, come il reddito, come gli eventi storici e i mercati finanziari eccetera, invece, l'influenza di un nuovo evento puo' essere determinante sulla media indipendentemente dal numero di campioni precedenti che la costituiscono.

Una immagine descritta da Taleb e' "la legge del tacchino". Da quando  nasce fino all'ultimo giovedi' di novembre il tacchino e' abituato a vedersi nutrire e accudire ogni giorno da un amorevole e simpatico contadino. Piu' passa il tempo e piu' il nostro tacchino sarebbe portato a credere che la Storia si dimostra omogenea, e a prevedere con sempre piu' certezza che il giorno dopo sara' nutrito e accudito. Ogni nuovo giorno quella persona si comporta come la media, il che rafforza la convinzione del tacchino che il mondo sia modellato in quel modo. E invece arriva il giorno del rigrnaziamento e con lui l'evento imprevisto: quella stessa mano che l'ha nutrito lo sgozza e l'arrostisce. Da qui la sfiducia di Taleb nella Storia come maestra di vita.

Per Taleb esistono due mondi separati, uno che chiama Mediocristan e l'altro Estremistan. Nel primo stanno tutti gli eventi della vita che sono prevedibili, nel senso che non si sa' cosa succedera', ma esiste una legge conosciuta che governa la probabilita' di cosa puo' succedere. Nel secondo invece quelli che non hanno questa caratteristica. Quelle discipline altrettanto importanti nella vita nelle quali un singolo evento puo' essere determinante per sovvertire il totale delle altre osservazioni.
Taleb dice che la Storia e' governata da eventi che non si e' riusciti a prevedere perche' sono per loro natura imprevedibili, ma che nonostante tutto hanno un peso tremendamente alto. Il Nazismo, ad esempio. Il crollo delle Torri Gemelle, ad esempio.
A me pare che sia una visione un poco semplicistica. Io credo che per quanto l'attacco alle Torri Gemelle fosse imprevedibile (e quindi imprevisto) (ma lo fu davvero?), era piu' che prevedibile che il terrorismo islamico si ribellasse con un atto fortemente simbolico contro gli Stati Uniti, la grande potenza archetipo di quel sistema mondiale che mette in ginocchio gran parte del resto del mondo per riempirsi la pancia a dismisura. Ovviamente io penso che l'attacco dell'11 settembre sotto sotto sia dettato da altri interessi. Ma non era difficile capire che qualcosa era nell'aria. Una ribellione, in genere, e' supportata da una ingiustizia sociale.
E poi la funzione "educativa" della Storia non e', secondo me, la constatazione che una sequenza particolare di eventi storici generi degli effetti importanti, ma piuttosto la possibilita' di utilizzare la consapevolezza di certi eventi per la crescita morale della societa'. Avere una conoscenza approfondita del Nazismo come evento storico forse non ci protegge dall'avvento di un altro pazzo come Hitler che prenda il potere e trucidi milioni di persone nel tentativo di far sparire una razza dalla faccia della terra. Ma ci aiuta a catalogare come moralmente negativa quella esperienza, e quindi a capire da che parte stare se dovesse ripetersi una situazione analoga. E mi pare proprio che se certe cose stanno avvenendo adesso in Italia (e in Europa), e' proprio perche' la societa' ha perso la memoria storica di quegli avvenimenti. Cioe', non e' tanto stupefacente che esista un certo numero di persone razziste. Quello che mi lascia allibito e' come moltissime persone (qui al nord direi la maggioranza) non riescano a dare una ragionevole valutazione morale di quanto sta avvenendo e quindi non ne scaturisca una netta condanna. Verrebbe da chiedere loro "ma come fate ad accettarlo? Non ve lo ricordate il Nazismo e il Fascismo?". Evidentemente non se lo ricordano. In questo senso la coscienza della Storia e' importante.
Poi certo la Storia e' scritta dai vincitori. Se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale ora l'assetto del mondo sarebbe totalmente differente. Forse io sarei stato educato da un sistema culturale totalmente diverso, e sarei magari convinto che gli ebrei sono una razza inferiore, che gli omosessuali sono delle aberrazioni della natura, che gli zingari siano degli emarginati da eliminare e altre amenita' di questo tipo (insomma, sarei simile ad un berlusconiano). Naturalmente non esiste una morale assoluta. La morale e', almeno in parte, il prodotto della cultura, che a sua volta dipende da come la societa' e' modellata dalla Storia. Se Hitler avesse vinto la guerra, forse la penserei in modo diverso. Ma ora sono qui. Hitler ha perso la guerra e (di conseguenza) la penso in questo modo.

Taleb ce l'ha in particolare con i trader finanziari (lui stesso fu trader). Perche' il loro compito e' consigliare l'investitore facendo proiezioni probabilistiche su quel che succedera' in futuro. Il rischio maggiore in un investimento sara' ricompensato con un maggiore guadagno se le cose vanno bene, mentre viceversa, se si accetta un guadagno minimo si ha il vantaggio di non essere costretti ad accettare un rischio grande. L'errore commesso dai trader (tutti i trader) e' di non prendere in considerazione (anche se e' piuttosto evidente) il fatto che il rischio finanziario appartiene all'Estremistan, mentre viene misurato dai trader con delle leggi gaussiane. In altre parole il trader dice che se non ci sono degli eventi ecclatanti che scombussolano ogni tipo di previsione, si puo' misurare il rischio e quindi determinare il guadagno. Il problema e' che gli eventi eccezionali avvengono, e il trader in questi casi si e' giocato i soldi dell'investitore, non i propri. Sarebbe come dire che domani probabilmente ci sara' il sole. E' evidente che si ha una relativa certezza se si omette di prendere in considerazione la possibilita' che domani piova.
Meglio sarebbe, allora, utilizzare leggi mandelbrotiane (che modellano meglio gli eventi dell'Estremistan), il che, in soldoni, significa ammettere di non saperne molto ma di descrivere la situazione per quella che e': cioe' che non si possono fare previsioni attendibili. Il che non significa non investire nell'Estremistan, ma di essere coscienti che tutto cio' che si investe puo' essere totalmente perso, a prescindere dal rischio calcolato da un sedicente trader. Taleb consiglia di investire in titoli sicuri (ad esempio i titoli di stato) la maggior parte dei propri soldi (si guadagna poco ma non si perde niente), e invece di investire nell'Estremistan una quantita' piccola di soldi che si e' disposti a perdere totalmente. Gia', perche' a fronte di eventi estremi (cigni neri) negativi che possono farci perdere tutto, ci sono cigni neri positivi che possono raddoppiare, decuplicare, centuplicare i nostri investimenti. Sempre che uno abbia soldi da investire nei mercati finanziari. E che voglia fare una cosa del genere. Va be'... non e' il mio caso, ma accetto la storia dei mercati finanziari come esempio.
Il trader descritto da Taleb somiglia un po' al mio datore di lavoro (ed in generale alla classe dirigente degli imprenditori). Mi e' sempre stato detto che l'imprenditore puo' godere di determinati benefit dalla societa' (maggiore ricchezza, vita di agi...) in cambio del rischio che deve correre. Viceversa il lavoratore non puo' arricchirsi a dismisura, ma non deve nemmeno sopportare il rischio di perdere tutto.
Salvo pero' il fatto che possono anche succedere degli imprevisti che, come dice la parola stessa, non sono previsti (e che, a dispetto di ogni incoerenza semantica, evidentemente non sono ritenuti parte del rischio corso dall'imprenditore). In quei casi l'imprenditore non ci vuole rimettere e scarica i costi della crisi sui lavoratori. In poche parole l'imprenditore ricco accetta "suo malgrado" il rischio accrescere il suo potere e la sua ricchezza nei periodi di vacche grasse, mentre nei periodi di vacche magre e' tutta la societa' che deve pagare perche' l'imprevisto non fa parte del rischio. Il datore di lavoro, dicevo sopra, deve sopportare il rischio di perdere tutto, ma in pratica, quando davvero questa eventualita' si palesa, a finire col culo per terra e' il lavoratore (e il mio datore di lavoro e' ancora in giro in maserati!). In caso di vacche magre, anzi, l'imprenditore deve essere addirittura favorito perche' sara' solo la sua sopravvivenza a garantire l'auspicata ripresa (e quindi il bene della societa' futura).

Il problema logico del discorso di Taleb, secondo me, e' che alla fine non si capisce bene come fare a riconoscere se una determinata disciplina e' di casa in Estremistan o in Mediocristan. Sicuramente cose che hanno delle leggi fissate e conosciute sono in Mediocristan. Per esempio il gioco d'azzardo al casino' ha regole fisse. Tutti sanno quanto si puo' vincere, e quindi esistono leggi precise che sanno consigliare se giocare oppure no. Per quanto poco probabile sia la vincita di un numero fisso alla roulette, quella probabilita' e' misurabile, e quindi la legge e' gaussiana.

foto rubata a Kyknoord
Ma nella vita non tutte le cose hanno leggi fissate e misurabili. Taleb dice che nel mondo naturale le cose sono di questo tipo, ma a me pare che e' solo una conoscienza limitata che ci induce a credere che sia cosi'. Per riprendere l'esempio della statura media, il discorso fatto sopra parte dal presupposto che sappiamo con certezza che non riusciremo mai ad avere una persona alta centosettantacinque metri. Io posso anche credere che sia cosi', ma in realta' nel momento in cui dovessimo trovare una persona cosi' alta dovremmo rivedere le regole. L'esempio e' estremo, ma in realta' e' proprio cosi' che avviene.
Il "cigno nero", e' un'espressione che denota un evento straordinario che sconvolge le regole. L'espressione deriva dal fatto che nel mondo conosciuto, prima della scoperta dell'Australia, i cigni erano solamente bianchi. In Australia sono stati scoperti dei cigni del tutto uguali a quelli europei, salvo il fatto che il loro piumaggio e' nero. Prima di questa scoperta il cigno nero aveva una probabilita' di esistenza pari a zero. Pari a quella di un uomo alto 175 metri. Ma poi si e' dovuto rivedere la regola per far rientrare questo evento nella conoscienza umana.
Detto fra noi, io credo veramente che non esista un uomo alto 175 metri, soprattutto perche' penso che non potrebbe passare inosservato. Ormai il mondo e' stato tutto scoperto, se esistesse un uomo del genere, qualcuno l'avrebbe visto e l'avrebbe riferito ai media. Il che equivale a dire che l'evento uomo-di-175-metri e' impossibile perche' l'intero insieme di dominio e' gia' conosciuto. Se pero' fossimo nei tempi in cui ampie porzioni di mappamondo erano ancora ricoperte dalla dicitura "hic sunt leones", non potremmo affatto escludere il caso (Johnatan Swift docet).
Ma qui nasce un interessante problema gnoseologico. Cioe', se la categoria consciuta come "cigno" e' descritta in modo sufficiente e necessario da un numero di caratteristiche tra cui il colore bianco del piumaggio, come si colloca la scoperta di un campione che ha tutte le caratteristiche richieste tranne quella pur necessaria del piumaggio di colore bianco? Perche' diciamo che il cigno nero sia in effetti un cigno? Perche' ha il collo lungo, le zampe palmate e il becco piatto?... ma se un giorno trovassimo un "coso" identico ad un cigno, ma con il collo corto, con le zampe non palmate e con il becco a punta, lo chiameremmo comunque "cigno"? La domanda e' "che cosa fa di un cigno un cigno?" (e che cosa ce lo fa riconoscere come tale?) Eppure un cigno nero lo riconosciamo come cigno, mentre una papera bianca (molto simile ad un cigno, salvo che ha il collo piu' corto) la riconosciamo immediatamente come un non-cigno.
In biologia esiste un metodo che discrimina una specie da un'altra (e quindi non discrimina tra razze diverse della stessa specie). Cioe', se due individui di sesso diverso sono in grado di generare figli fertili, i due individui appartengono alla stessa specie. Il cavallo e l'asino ad esempio, sono due speci diverse perche' anche se sono in grado di generare figli "ibridi" (il bardotto e il mulo), tali figli non sono fertili. Tuttavia questa (ragionevole ma artificiosa) regola non ha niente a che vedere con il problema gnoseologico. Se anche ammettessimo che il cigno bianco e quello nero appartenessero a speci diverse, comunque continueremmo a considerarli entrambi cigni. Perche'? Boh!

Taleb dice che il fatto di non avere conoscenza di un determinato evento non ci deve fare escludere la possibilita' che esso si realizzi. Cioe', non dovremmo escludere a priori l'esistenza del cigno nero prima di vederne uno (a questo punto sarebbe interessante chiedersi - perche' no? - se non esista anche un cigno blu o un cigno a pois, o un cigno con tre zampe o un cigno alto 175 metri). Il punto e' che nella vita quotidiana ci fa molto comodo riconoscere un cigno come tale, perche' se abbiamo fame cerchiamo di catturarlo e farlo arrosto. Confonderlo con uno scarpone ci farebbe correre il rischio di finire per mangiarci uno scarpone. Ci fa comodo sapere che un serpente e' un serpente, perche' se ci avviciniamo troppo ci morde e ci avvelena. Ci fa comodo sapere che un albero e' un albero perche' se tagliamo il tronco a fette possiamo accenderlo e ottenere un bel fuoco che ci fa comodo sapere che e' fuoco perche' ci riscalda (si provi a fare la stessa cosa con un cigno!)
Non so perche' un cigno e' un cigno indipendentemente dal colore delle sue piume. Ma fa niente. Se dovessi incontrarne uno nero potrei non distinguerlo come tale oppure potrei riconoscerlo come caso particolare, ma cio' non toglie che il concetto di cigno (insieme a tutti gli altri concetti) mi sia utile per poter vivere in questo mondo.

mercoledì 10 novembre 2010

Anche tu, Rubi?

Come ti chiami, bella?
tanto il mio nome già lo sai
è per questo che sei qui,
per non scordarlo mai.
Io ti posso regalare tutto quanto
tranne la felicità,
però ti prego non chiamarmi anche tu papà.
Tu che vita che farai
sai che proprio non mi importa,
perché domani,
quando uscirai da questa porta,
quanti anni avrai
e quanti te ne avrà rubati io
sono solo cazzi tuoi
che qui tanto è tutto mio.
Anche tu Ruby
tu come me, rubi
sì siamo entrambi due grandi
rubacuor
che io ti pago, Ruby
ma non m'appago, Ruby
ma tu puoi sognare in questa villa a Arcor
come sei alta, snella
che gamba lunga lunga!
adesso dai facciamo.... un po' di rumba
su dai racconta i tuoi casini
e dammi da bere, ho ancora sete
che andare coi più piccolini
mi fa sentire grande
son scherzi anche da prete.
Ma anche tu Ruby
tu come me, rubi
che sono bello, sono alto
e sono un rubacuor
che posso tutto, Ruby
io sono il capo, Ruby
e ti concedo di sognar
in questa villa a Arcor
ma anche tu, Ruby
tu come me, rubi
che sono bello, sono alto
e sono un rubacuor
che posso tutto, Ruby
io sono il capo, Ruby
e ti concedo di sognar
in questa villa a Arcor
e ti concedo di sognar
in questa villa a Arcor
e ti concedo di sognar
ma intanto dammi... il cuor

Omar Stellacci

giovedì 4 novembre 2010

Ancora sulla meritocrazia

A volte mi metto li' e comincio a pensare e ad elaborare teorie strampalate a titolo puramente speculativo (visto che poi non hanno impatto sulla realta' perche' si basano su ipotesi del tutto astratte, su utopie che e' difficile definirle anche come modelli della realta'). C'e' chi dice che avrei dovuto fare il filosofo (eheh!).
In effetti e' questa tendenza che sta alla base della ricorrente critica ai miei ragionamenti quando si dice che parlo troppo dei "massimi sistemi".

L'argomento di questo post, che ha appunto carattere astratto, e' un po' la continuazione della discussione nata nei commenti al post intitolato "meritocrazia", qua sotto.

Secondo un metodo meritocratico, la retribuzione di un lavoratore dovrebbe essere in qualche modo commisurata (anche se non letteralmente proporzionale) al merito dimostrato nello svolgimento del lavoro. La domanda e': che cosa si intende per merito?

Chiaramente lo scopo di una azienda e' quello di produrre di piu' (in termini di quantita' o di qualita', a seconda della strategia dell'azienda) ad un costo inferiore (in modo da abbassare i prezzi di vendita - e quindi sbaragliare la concorrenza - o da aumentare gli utili). Il merito quindi dovrebbe essere attribuito a chi, grazie al proprio lavoro, contribuisce all'aumento o al miglioramento della produzione, o alla dimunuzione dei costi.
Se il signor A e il signor B, dipendenti dell'azienda hanno lo stesso ruolo nella produzione del prodotto x, la produttivita' di quei lavoratori puo' essere facilmente misurata in numero di pezzi x prodotti.
Supponiamo che il lavoratore A produca mediamente in una giornata lavorativa, 10x, percependo uno stipendio di 100 euro. Se la logica e' meritocratica, il lavoratore B cerchera' di produrre un numero di pezzi maggiore di A, cosicche' possa ragionevolmente pretendere una retribuzione maggiore del minimo determinato dal lavoratore A. Diciamo quindi che B si organizzera' per produrre mediamente 11x. La logica retributiva e' meritocratica quindi otterra' uno stipendio maggiorato, diciamo di 1 euro: 101euro. Anche se l'aumento di stipendio non e' proporzionale all'aumento di produttivita', B e' contento perche' riesce a portare a casa un euro in piu'. Non avrebbe pero' senso, per lui, cercare di produrre 12x, perche' cio' non significherebbe comunque un ulteriore aumento di stipendio: e' facile misurare la quantita' di produzione comparativamente alla quantita' prodotta da qualcun altro, ma non c'e' una misurazione assoluta dell'aumento di produttivita'. In altre parole, non c'e' una risposta alla domanda: "quanto vale un aumento di 1x rispetto ad un dato base di 11x?".
Possiamo pero' dire che il lavoratore A, vedendo la correlazione tra l'aumento di stipendio di B maggiorato ed il suo aumento di produttivita', sara' invogliato a metterci un poco piu' di impegno per superare la produttivita' di B, e quindi cerchera' di produrre 12x. L'azienda gli aumentera' quindi lo stipendio, diciamo a 102euro. Di conseguenza B cerchera' di produrre 13x meritandosi uno stipendio di 103euro, eccetera, eccetera, eccetera...
Evidentemente questo processo potrebbe idealmente protrarsi all'infinito, sia dal punto di vista della produzione, sia da quello della retribuzione.
Ci sono pero' limitazioni evidenti a questa crescita. Il primo che mi viene in mente e' che se la giornata lavorativa e' di 8 ore e se ci vuole un certo tempo minimo t a produrre ogni pezzo x, indipendentemente dall'abilita' e dall'impegno del lavoratore che lo produce, il numero massimo di pezzi al giorno sara' esattamente 8ore/t. Un'altra limitazione e' l'esigenza dell'azienda. Se i lavoratori addetti alla produzione di x producessero un numero di pezzi maggiore di quanti ne servano all'azienda ci potrebbe essere un problema di sovrapproduzione, i cui costi graverebbero sulle spalle dell'azienda. In soldoni, finche' all'azienda occorre una produzione di 100x al giorno, un dipendente in grado di produrre 150x al giorno non costituisce un vantaggio rispetto ad uno che ne puo' produrre esattamente 100.

C'e' poi il caso in cui nell'azienda non esistono due lavoratori che abbiano lo stesso ruolo, o un ruolo comparabile. Una situazione in cui A producesse 100x e B producesse 200y, puo' significare che per produrre y ci si impiega la meta' del tempo per produrre x, ma puo' anche significare che il lavoratore B si impegna di piu' e dia risultati doppi. Oppure puo' anche significare che A si sia impegnato di piu' di B, se la produzione di y richiede molto piu' del doppio dell'impegno per produrre x.
I beni x e y sembrerebbero non confrontabili, ma non avendo una misura assoluta della pdoruttivita', l'unico modo di valutarla e' comparativo.
In termini piu' formali,
s=f(x)
(cioe' lo stipendio e' funzione del numero di pezzi). Dire che siamo in un sistema meritocratico equivale a dire che la funzione f e' monotona crescente, cioe', all'aumentare della produttivita' aumenta lo stipendio. Ma questa caratteristica non e' sufficiente a mettere in relazione lo stipendio s con x in un dato istante, poiche' sappiamo che cresce ma non sappiamo in che modo. In altre parole, uno stipendio di 100 euro per la produzione di 10x potrebbe essere tanto o poco, se non si ha un termine di paragone.

Un metodo per recuperare un termine di paragone non esplicito potrebbe essere quello di misurare il valore del prodotto x e paragonarlo con quello del prodotto y, indipendentemente dall'impegno necessario per produrre l'uno o l'altro. Se il prodotto x vale il doppio del prodotto y, il lavoratore A, con i suoi 100x, produce lo stesso valore del lavoratore B con i suoi 200y, quindi 201y costituirebbe un surplus di merito per B, mentre 101x uno per A. Questo pero' a me pare ingiusto. Mi spiego con un esempio stupido: Per ogni automobile a 3 porte l'azienda automobilistica deve produrre un portellone e due portiere. Verrebbe da concludere che il valore di una portiera e' la meta' di quella di un portellone. Eppure non ci vuole meno impegno per produrla (anzi, casomai l'inverso!). Nondimeno la casa automobilistica dovra' commercializzare automobili con tutte le porte comprese nel prezzo, per cui l'azienda dovra' adeguarsi a produrre due portiere e un portellone, anche se sembrerebbe di gran lunga meno conveniente che produrre tre portelloni. Sarebbe assurdo immaginare di pagare di meno l'operaio che produce la portiera dell'operaio che produce il portellone.
In altre parole, il metodo che valuta il valore di un lavoratore in base al cumulo del valore di cio' che produce materialmente sembra poco convincente.
Eppure spesso avviene cosi' nella vita reale. Io, ad esempio, lavoro nell'ufficio di ricerca e sviluppo, e spesso, insieme ai colleghi di questo ufficio, sono additato come colui che vive sulle spalle di chi fa invece la vera produzione. Quelli dell'ufficio che produce il prodotto finito hanno la sensazione che e' proprio grazie al loro lavoro che l'azienda ottiene l'utile che serve per pagare gli stipendi di tutti, compreso il mio. Quello che invece fa programmi nell'ufficio di ricerca e sviluppo non ha un diretto riscontro sul valore del proprio lavoro da poter sbandierare al momento opportuno.

Un metodo secondo me un poco piu' ragionevole per valutare un lavoratore indipendentemente dalla presenza in azienda di un altro lavoratore che svolge lo stesso compito puo' essere quello di utilizzare come termine di confronto la produttivita' dello stesso lavoratore nello storico.
Questo e' esattamente quello che, almeno a parole, tentano di fare nell'azienda per la quale lavoro (mmh... in realta' ad oggi non tentano piu' nemmeno di convincerci che sia questo: richiedono spudoratamente piu' impegno rifiutando qualunque disponibilita' ad adeguare lo stipendio, con la scusa della crisi economica - in pratica, utilizzano un metro diverso: quello che definisco il "mercato delle vacche", che descrivero' piu' sotto).
Mi spiego meglio.
Il lavoratore A produce una media di 100x al giorno nell'anno 2000, 100x nel 2001, 100x nel 2002 e cosi' via fino al 2009. Nel 2010 il lavoratore A produce 120x al giorno. Significa che nel 2010 il lavoratore A si e' impegnato di piu', e quindi si merita un certo premio: un aumento di stipendio. Questo sembrerebbe meritocratico, perche' il merito di aver prodotto 20x in piu' al giorno viene riconosciuto e ricompensato. A, in altre parole, viene incentivato a produrre di piu'. O, vista dal punto di vista opposto, l'azienda viene invogliata ad aumentare lo stipendio.
Ma andiamo avanti. Anche nel 2011 A produrra' 120x al giorno, perche' avra' quello stipendio. Pero' nell'anno 2012 A forse tornera' a produrre solo 100x, ricadendo in un certo lassismo proprio della sua personalita'. A rigore il suo stipendio dovrebbe essere ridotto allo stipendio che percepiva dal 2000 al 2009 (almeno allo stesso valore come potere d'acquisto). Questo comporta certe interpretazioni un poco deviate, rispetto lo scopo del meccanismo.
- il lavoratore dice: se io produco 100x oggi, ma posso produrre 120x impegnandomi di piu', mi conviene produrre 101x, il che costituisce un aumento di produttivita' ma consente un ulteriore aumento in futuro, corrispondente ad un ulteriore aumento di impegno.
- il datore di lavoro dice: l'anno scorso A ha prodotto 100x. Quest'anno ha prodotto 120x, senza che io gli dessi un aumento di stipendio. Vuol dire che l'anno scorso A non si e' impegnato al massimo, non meritandosi quindi lo stipendio. Ora che l'ho scoperto, non sarebbe invece da punire, piuttosto che premiare?
- il datore di lavoro dice: l'anno scorso A ha prodotto 100x. Quest'anno ha dimostrato di poter produrre 120x a questo stipendio, quindi se gli aumentassi lo stipendio, sarebbe portato ad interrompere il miglioramento delle sue prestazioni, poiche' ha ottenuto l'aumento che desiderava. Se invece gli lascio invariato lo stipendio, lui dovra' dimostrare di essere capace di produrre di piu' l'anno prossimo. Se il lavoratore A l'anno prossimo tornasse a produrre 100x - visto che non ha ottenuto un aumento di stipendio - significherebbe che e' stato sbagliato dargli un aumento visto che non e' disposto ad impegnarsi di piu' costantemente, mentre se l'anno prossimo produce 120x significa che il suo impegno non e' correlato all'aumento di stipendio e di conseguenza, ancora una volta, ho fatto bene a non darglielo.
- Con questo sistema, al lavoratore non conviene mai dare il massimo, perche' se da' il massimo ottiene un aumento di stipendio massimo, dopodiche' dovra' continuare a dare il massimo per mantenere quello stipendio, senza speranza di un ulteriore aumento (visto che piu' del massimo non puo' dare).
D'altra parte al datore di lavoro conviene non dare mai un aumento massimo perche' esso costituirebbe un premio insuperabile e quindi vanificherebbe la richiesta di un ulteriore impegno da parte del lavoratore.
- Se il datore di lavoro mi richiedesse un maggiore impegno, io gli risponderei che per lo stipendio che mi da' questo e' il massimo che posso dare. Ovviamente risponderei cosi', perche' la mia disponibilita' ad impegnarmi di piu' a questo stipendio svelerebbe una inadeguatezza del mio impegno attuale. Dovrei quindi dare di piu' a questo stipendio, il che svela che non mi merito un aumento.
- D'altra parte se il datore di lavoro mi corrispondesse un aumento di stipendio, come incentivo, prima di richiedermi un aumento di impegno, io dedurrei che finalmente lui ha capito che il mio impegno attuale non era sufficientemente retribuito, e cio' non sarebbe di alcun incentivo a produrre di piu'.
Quel che realmente e' successo nella mia azienda e' che si e' sbandierato un criterio meritocratico, promettendo aumenti per il raggiungimento di determinati obiettivi. Quando gli obiettivi sono stati raggiunti (prima di qualunque aumento retributivo) il datore di lavoro ha dedotto che lo stipendio che si percepiva era sufficiente per il raggiungimento di quegli obiettivi, e quindi non avrebbe avuto senso aumentare gli stipendi. Ora i lavoratori se la sono pigliata in quel posto, perche' se cercano di dare di piu' senza un aumento di stipendio, dimostrano che non e' necessario dare loro un aumento di stipendio per ottenere di piu', se invece si rilassano e si adeguano ad impegnarsi di meno, dimostrano che la loro produttivita' cala, e quindi non si meritano nemmeno lo stipendio che hanno.
Contorto? Eppure da noi e' esattamente cosi' che funziona. Meritocrazia o no, sono riusciti a trovare il modo di non adeguare il mio stipendio neanche agli scatti del CCNL.
Il fatto e' che a me piace dare il massimo e fare le cose nel modo migliore, perche' trovo che sia piu' stimolante che perdere tempo. Quindi non ha senso rapportare il mio impegno alla mia retribuzione.

Un metodo che invece sembra funzionare in ogni caso e' quello del "mercato delle vacche". Si tratta dell'applicazione alla carne umana della Sacra Legge del Mercato: la Legge della Domanda e dell'Offerta.
Chi vende un bene materiale qualsiasi tendera' a diminuirne il prezzo unitario se ha da smerciarne una gran quantita' ma non ci sono molti acquirenti. Facendo cosi' riuscira' ad aumentare la domanda (il prezzo inferiore rende il bene piu' attraente), e non rischiera' di rimanere con molto invenduto. Il guadagno unitario sara' inferiore, ma quello totale superiore. Se invece chi vende dispone di una piccola quantita' di quel bene a fronte di una domanda molto alta, tendera' ad aumentarne il prezzo, poiche' riuscira' comunque a piazzare tutto, ottenendone un utile maggiore.
Questo metodo per assegnare un prezzo ad un bene e' secondo me eticamente discutibile, perche' alla fine il prezzo non ha niente a che vedere con il valore. Se io devo acquistare un bene per me necessario che pero' ha un basso valore intrinseco (cioe' produrlo e' costato poco), io saro' disposto a sborsare qualunque cifra per ottenere quel bene. Viceversa, l'abbondanza di disponibilita' sul mercato di un bene che ha un alto valore intrinseco (cioe' e' costato molto per produrlo) puo' stritolare il guadagno di chi l'ha prodotto. Anche se eticamente discutibile, tutto questo puo' anche essere ragionevole per un bene materiale qualsiasi. Ma se stiamo parlando del lavoratore, che incidentalmente e' anche un essere umano, mi pare un poco demoralizzante.
Secondo questo schema la soddisfazione del lavoratore nel proprio stipendio e' valutata in base al mercato del lavoro. Se io svolgessi un compito che solo una ristrettissima quantita' di persone al mondo e' capace di svolgere, me la potrei scialare con uno stipendio altissimo. Viceversa se molti sono in grado di compiere il mio lavoro, e per giunta parecchi di loro sono in cerca di occupazione, quelli saranno portati ad offrirsi per uno stipendio inferiore al mio. Io saro' quindi meno competittivo.
Questo e' terribile per due ragioni. La prima e' che per quanto io sia bravo, se l'azienda non richiede questa qualita', io dovro' accontentarmi di una retribuzione inferiore alle mie capacita'. Se ci fosse una adeguata organizzazione del mio lavoro, io potrei produrre ben piu' di quanto produco ora, e quindi far fruttare la mia professionalita' meglio. Potrei costituire una ricchezza maggiore per l'azienda e quindi ottenere una retribuzione migliore. Ma non e' cosi'.
L'altra ragione e' che sono le fluttuazioni del mercato del lavoro e non il lavoro stesso a determinare il valore bene prodotto, e quindi, se anche fosse vero che in un determinato istante fissato del tempo una retribuzione migliore e' determinata da un impegno maggiore, a fronte di un periodo globalmente negativo non c'e' impegno che tenga.

mercoledì 27 ottobre 2010

Ma quanti sono i clienti dell'Ikea?

Se ognuno dei clienti di Ikea sostituisse una lampadina ad incandescenza da 60watt con una a fluorescenza a basso consumo si risparmierebbe, in termini di energia e di emissioni di CO2 l'equivalente di togliere dalla strada 750 000 automobili. Questo e' scritto su una pagina del catalogo Ikea.

Ora, io non so quanti siano esattamente i clienti di Ikea, ma...
Una lampada a fluorescenza che produca una luce pari ad una ad incandescenza di 60w consuma 6w, quindi il risparmio e' del 90%. Se i clienti Ikea fossero quindi 833 milioni (poco meno di un miliardo), ognuno dei quali sostituisse la sua lampadina, si dedurrebbe che ogni automobile consuma (e inquina) quanto 1000 lampadine a incandescenza da 60 watt...

Cosi' poco?

lunedì 18 ottobre 2010

Meritocrazia

Settimana scorsa ho scritto, in un mio post, di un particolare imprenditore, il mio datore di lavoro, ed ho forse ingiustamente qualificato tutta la categoria. Ingiustamente perche', mentre e' piu' che palese che il mio datore di lavoro non faccia altro che sfruttare la ricchezza prodotta dai propri dipendenti (me compreso) per suoi vantaggi personali, non e' affatto detto che gli altri imprenditori facciano lo stesso con i loro dipendenti.
In un commento a quel post Liber mi ha portato l'esempio del suo datore di lavoro, che invece sembra si dimostri consapevole del fatto che sia il benessere del lavoratore, sia quello dell'imprenditore dipendono da un patto che consente di operare in sinergia. Entrambe le parti operano per massimizzare il bene comune.
Ma di quale bene stiamo parlando? Come diceva Cecilia Strada in una favola che ho postato su questo blog tempo fa, c'e' molta confusione su cosa sia la ricchezza. Per uno ricchezza significa un milione di miliardi, mentre per un altro una patata al giorno.
Se anche esistesse davvero (e francamente continuo a dubitarne, anche se ammetto l'esistenza di casi particolari) un imprenditore che divide equamente gli introiti dell'impresa, comunque si tratterebbe di uno che si integra e trae profitto dagli ingranaggi di un sistema che si basa sulla disuguaglianza.
Nel caso dell'imprenditore di Liber si tratta di uno che si e' fatto da se', mentre nel caso del mio datore di lavoro si tratta di uno che ha ereditato l'attivita'.

Cio' che il nostro modello economico dovrebbe assicurare (il condizionale indica che mi pare proprio che non lo assicuri affatto, ma questo discorso va fuori tema), e' la pari opportunita'. Non credo pero' che questo renda la situazione piu' socialmente accettabile.
Facciamo un esempio estremo. In un mondo ideale in cui la Fisica e' il metro di giudizio del merito, Einstein sarebbe supermilionario, perche' e' stato un fisico molto piu' geniale della media. Io ad esempio sarei poco piu' che un mendicante, in una societa' del genere, perche' le mie capacita' nel campo sono piuttosto limitate. Penso che sia un fatto genetico: io non riesco bene ad assimilare la Fisica (quanto ad esempio faccio egregiamente con la Matematica), quindi anche se la cultura fosse modellata su un sistema che premia quella disciplina, comunque non sarei mai diventato un grande genio della Fisica. E credo che la maggior parte della gente sarebbe piu' o meno al mio livello.
Il sistema sarebbe destinato ad avere pochi genii della Fisica supermilionari e una moltitudine di poveri imbecilli come me. Eppure ci sarebbe pari opportunita' per tutti. Ognuno sarebbe libero di fare le proprie scoperte sensazionali di importanza comparabile con la Teoria della Relativita' Generale, presentare le proprie scoperte al Grande Fisico ed ottenerne una adeguata retribuzione. Ci sarebbe il massmo di parita' di opportunita', ma ci sarebbe enorme disuguaglianza sociale.
Forse incolpare di questa situazione un genio come Einstein e' sbagliato, ma rimane il fatto che quel genio sta approfittando di quella disuguaglianza sociale.
Gia' questo sarebbe sbagliato, ma quanto meno un genio della fisica produce delle scoperte scientifiche che hanno di per se un valore in quanto tali.

Prendiamo invece un sistema basato sul consumo come il nostro. E' evidente che la ricchezza materiale e' prodotta da chi costruisce il prodotto di consumo.
Qualcuno, come il mio amico Maurice, direbbe che il marketing fornisce valore aggiunto al prodotto. E' vero, il prezzo di un vestito firmato dal Famoso Stilista e' maggiore del prezzo di un vestito identico non firmato. Eppure il lavoro necessario per produrre l'uno e l'altro e' identico. Il valore attribuito dalla nostra societa' al marketing non e' trascurabile. Ma questo perche' la nostra societa' premia il marketing.
A me pare un po' poco etico. Quel venditore in grado di offuscare gli occhi del cliente facendogli acquistare una cosa di poco valore intrinseco ad un prezzo elevato, inducendolo sovrastimarne il valore, e' in generale considerato un bravo venditore.
Questo paragone va un po' fuori tema, e' vero. Ma in fondo il "mestiere" dell'imprenditore e' proprio questo. Si tratta di riuscire a vendere un prodotto ad un prezzo maggiore del suo valore. Se cosi' non fosse l'azienda non riuscirebbe a stare in piedi. A tal proposito mi viene in mente una discussione tra me e un'altra blogger, riportata su un mio vecchio blog (scusate l'inglese).

Il mio datore di lavoro, nelle riunioni periodiche in cui giustifica il suo atteggiamento repressivo nei confronti delle rivendicazioni dei dipendenti, ottenendo l'effetto collaterale di creare un clima ancor piu' repressivo, e' solito dire "Non siamo qui per fare beneficienza", sottintendendo che il motivo per cui l'imprenditore mette del capitale e' perche' vuole ricavarne profitto, mica per fare genericamente 'del bene'. Io credo che in un sistema cosi' modellato sia anche comprensibile. Se io avessi soldi, perche' mai dovrei decidere di impiegarli in una attivita' produttiva se non avessi un margine di profitto?
Evidentemente, all'interno del sistema etico del capitalismo, questo e' ragionevole. Ma non credo che si possa negare che questo meccanismo crea ed accentua disuguaglianza sociale.

Io ho dei dubbi sull'effettiva capacita' del mio datore di lavoro di promuovere l'azienda (e quindi di fornire un aumento di ricchezza per i dipendenti, oltre che per se) - anche ammesso che cio' abbia un assoluto valore etico.
Ma se anche non avessi questi dubbi e il mio datore di lavoro fosse un imprenditore modello, non ci troverei nulla di strano se lui stesso ammettesse che io sono di gran lunga piu' bravo di lui con l'informatica. Che io sono in grado di fare programmi di una qualita' che rasenta la perfezione, mentre lui magari non e' nemmeno in grado di accendere il PC che sta sulla sua scrivania piu' che altro come status-symbol.
Io stesso non avrei problemi ad ammettere che lui, in quanto imprenditore e' decisamente molto migliore di me. Io non so vendere il prodotto, non so promuovere l'attivita', non so gestire il personale, non so procacciare affari, non sono capace nemmeno di maneggiare il denaro (tant'e' che, in famiglia, e' mia moglie a gestire questa attivita' :-/). Io al suo posto sarei un disastro completo. Almeno quanto lui al mio posto sarebbe un disastro completo.
Ma lui, per fare bene il suo lavoro, prende un sacco di soldi che escono dalla azienda. Io invece lavoro altrettanto duramente, e non riesco ad ottenere un aumento (nemmeno l'adeguamento all'inflazione programmata previsto dal contratto nazionale), da oltre quattro anni. La disuguaglianza sociale tra me e lui non e' basata sul fatto che uno dei due abbia piu' o meno abilita' nel proprio lavoro. E nemmeno sul fatto che l'attivita' svolta sia piu' o meno importante di quella svolta dall'altro nel processo aziendale. Ma semplicemente perche' il merito dell'uno e' valutato di piu' secondo metodi del tutto arbitrari e decisi in modo parziale. Per l'esattezza il mio merito lo valuta lui, ma io non valuto il suo. In soldoni lui decide quanto deve essere il mio stipendio, ma io non decido quanto debba essere il suo. Questa asimmetria, secondo me, fa si' che non si puo' proprio dire che la parita' di trattamento equivale alla parita' di ruolo e che il valore sia equamente ripartito sul merito.

Oppure possiamo invece ammettere che si', la nostra e' una societa' meritocratica, applicando pero' artificiosamente il merito sulle qualita' imprenditoriali, come nel mio stupido esempio di prima l'ho attribuita alla capacita' di eccellere nella Fisica. E' giusto?
L'imprenditore a questo punto potrebbe ribattere, in tono di sfida "Be', Dario, se non lo trovi giusto, perche' non fai tu l'imprenditore?". Gia', ma allora, se lui e' cosi' bravo, perche' non viene qui lui a fare il programmatore al posto mio?

Senza contare, poi, che se a botta fredda mi viene da dire che sono pagato poco rispetto al lavoro che faccio, anche questa affermazione risulta  piuttosto traballante, perche' non c'e' un termine di paragone. Un chilo di patate vale piu' o meno di tre grappoli d'uva? Dipende. Dipende da quanto e' nutriente? Da quante persone ci sfami? Da quanta energia ci vuole per produrre l'uno e l'altro bene? Di solito i prezzi di questo tipo di generi di consumo e' dettato dalla legge della domanda e dell'offerta. Se ci sono poche patate e le vogliono tutti, il prezzo delle patate andra' alle stelle, anche se per coltivarle il contadino ha fatto molta piu' fatica con l'uva, che pero' non se la fila nessuno e quindi viene data via a poco.

Valgono di piu' otto ore di Dario a sgobbare con la mente per fare programmi oppure otto ore di un ragazzino africano spese per andare a recuperare l'acqua potabile per se e la sua famiglia a piedi, sotto il sole cocente? Eppure io sono ben pasciuto e mi permetto pure degli extra, tipo una bottiglia di buon vino in una serata romantica di fronte alla mia R al fresco del pergolato di una trattoria nella campagna toscana, lui invece porta a casa solo dell'acqua sporca, sufficiente appena per tirare fino a domani.

Esiste la meritocrazia?
Precondizione, secondo me, e' stabilire quale sia il criterio per misurare il merito. E non mi pare proprio che, a livello sociale, l'imprenditore possa arrogarsi il diritto di decidere.

mercoledì 13 ottobre 2010

Alleanze

Ieri sera ascoltavo il Tg di Mentana. Non ero molto concentrato sulla TV, perche' quando ceno preferisco rivolgere la mia attenzione al cibo e ai commensali (nella fattispecie mia moglie R).
Il Tg di La7 mi piace. Per la verita' questa affermazione non e' molto significativa, visto che si tratta dell'unico Tg decente. O almeno l'unico che si piglia nel bosco di castagni dove abito.
Mentana invece no. Cioe', come diavolo si fa a passare dalla direzione di un Tg che distorce la realta' per servire il Padrone alla direzione di uno in aperta polemica, senza perdere la faccia?
Ma va be', non di questo volevo parlare. Di che cosa volevo parlare? Ah, si'.

Non mi e' sfuggito, ieri siera, al Tg7 l'intervista a Bersani. Ecco qui la notizia, da Libero-news, ma googolando "Bersani Ferrero Diliberto La7" escono mille altri risultati che propongono piu' o meno le stesse parole.
Secondo me Bersani non e' stato sufficientemente chiaro (o sono io che ho confuso un po' le cose che ha detto?).

Le questioni secondo me sono tre:
1) La ricerca di una alleanza per formare un governo dopo le elezioni (che, si auspica - anche se io non ci credo -, verranno celebrate dopo aver cambiato la legge elettorale).
2) Stabilire quali siano gli interlocutori che dovranno essere chiamati in causa per formulare una nuova legge elettorale.
3) Visto che nel frattempo il governo cadra' (si spera, altrimenti il discorso non sta in piedi), bisognera' trovare una alleanza per formare un governo temporaneo.

Che' infatti, a scapito di quanto dice Berlusconi, non e' ne' il parlamento ne' il governo che decide se si va a elezioni anticipate o se si trova una maggioranza alternativa. Ma il Presidente della Repubblica. Che poi, mi si corregga se sbaglio, a rigore, non e' che decida molto nemmeno lui. Cioe', se dalle consultazioni emerge una coalizione di maggioranza alternativa allora bisogna nominare un presidente del consiglio, se invece non esiste nessuna maggioranza alternativa non si puo' che indire le elezioni. Quindi non e' che Napolitano possa decidere molto. La scelta tra le due opzioni e' determinata dall'esistenza o meno di una maggioranza alternativa.
A me evidentemente non piace l'arroganza di Berlusconi quando dichiara di decidere se andare alle elezioni o no. Lui non decide un bel niente, perche' se il governo e' supportato da una maggioranza, governa e non c'e' bisogno di elezioni. Se no si deve dimettere, e quindi non solo non ha l'autorita' di indire elezioni, ma non puo' nemmeno governare. Si faccia da parte e stia zitto.
Pero' la maggioranza alternativa c'e' o non c'e', non e' che Napolitano la possa creare. Se Berlusconi non avesse piu' la maggioranza (perche' Fini non lo sostenesse piu'), e se poi tra le forze alternative (Pd, IdV, Udc, Fini e compagnia cantante) non si riuscisse a formare una coalizione che raggiungesse la maggioranza dei parlamentari, be', c'e' poco da fare. Quindi la decisione se ricorrere alle elezioni e' in potere delle forze politiche. Eccome! Se si alleano, non si vota. Se non si alleano, si vota.

Quindi, secondo me:
1) Che Bersani si allei un po' con chi gli pare, anche se mi pare triste tagliare fuori Diliberto e Ferrero prima ancora di valutare se ci siano convergenze ideologiche tra gli elettori del Pd e dei due mangiabambini (non si e' ancora deciso su che cosa basare l'alleanza, come si puo' decidere con chi farla?). Mi sembrerebbe uno scopiazzamento dell'antidemocratico modello americano: bipolarismo con uno scassaballe (Ralph Nader) che e' l'unico che dice le cose giuste ma e' sempre tagliato fuori. Se Bersani trovasse una alleanza di governo con Fini e Udc (oltre che DiPietro), piangerei la morte della Sinistra.
In ogni caso, spero che Bersani (al contrario di quanto fece il suo revolucionario predecessore) cerchi almeno la via del governo , e non dell'opposizione, altrimenti ci spetta un altro mandato di Berlusconi. Non credo che l'Italia lo sopporterebbe (tantomeno gli elettori del Pd). Quindi, se vuole lasciare fuori Diliberto e Ferrero, che lo faccia assicurandosi pero' una alleanza che possa governare!
2) A mio parere, poiche' le elezioni sono le regole del gioco, la maggioranza che deve approvarne la legge deve essere la piu' ampia possibile, tra i partecipanti del gioco. Teoricamente dovrebbe includere anche Berlusconi stesso (che nel frattempo sarebbe passato in minoranza). Evidentemente questo non e' possibile, visto che, ora mi pare chiaro a tutti tranne che ai vichinghi leghisti, Berlusconi e' la causa del regime antidemocratico nel quale ci troviamo. Berlusconi vuole sovvertire le regole a suo vantaggio personale, e dove non puo', vuole eluderle. Cio' lo esclude dal diritto di scelta democratica delle regole. Ma tutte le altre forze politiche dovrebbero essere della partita. Compresi, perche' no?, Diliberto e Ferrero.
3) Bisogna trovare una maggioranza che sostenga un governo per tutto il tempo necessario per partorire 'sta benedetta legge elettorale. Questo governo serve per governare, e non per fare la legge elettorale. La legge elettorale la fa' da chi detiene il potere legislativo, cioe' il Parlamento, mica del Governo. Inoltre, quale che sia la maggioranza che sostiene il Governo, come dicevo al punto 2, e' bene che la legge elettorale sia sostenuta da una maggioranza la piu' ampia possibile, e quindi anche dalle forze che non concorrono alla maggioranza di governo. Il motivo per cui e' utile che si nomini un governo per il tempo necessario per fare la legge elettorale e' che, non potendo ovviamente rimanere senza governo, se cio' non avvenisse bisognerebbe ricorrere alle elezioni, e quindi votare con la vecchia legge elettorale. E votare con la vecchia legge elettorale un Parlamento che si occupi di modificare la legge elettorale mi pare un po' bizzarro. Come accadde l'altra volta, dalle elezioni uscirebbe una maggioranza che non vorra' essere delegittimata dalla modifica della legge elettorale (che potenzialmente avrebbe portato ad una maggioranza diversa).

Quello che non capisco e' per che cosa Bersani cerca l'alleanza con UDC e Fini, oltre che con le colonne d'Ercole IdV e Vendola, rifiutandola invece con Diliberto e Ferrero. Come alleanza per un governo a termine che governi per il tempo necessario per rifare la legge elettorale? Come interlocutori per decidere come la legge elettorale venga fatta? O come alleati per il governo che dovra' nascere nel nuovo corso dopo le elezioni?

Boh!

lunedì 11 ottobre 2010

Io non capisco

Io non capisco.
Un imprenditore ha indubbi privilegi. Non come persona, ma come imprenditore.
Cioe', in genere e' ricco, e quindi sta meglio di uno che e' povero. C'e' disuguaglianza sociale. Ma non e' questo il tema del post.
Intendevo in quanto soggetto produttivo della societa'.
Un'impresa ha un valore per la societa' perche' produce della ricchezza che viene in qualche modo redistribuita tra tutti (o almeno alcuni) gli elementi della societa'. Un'impresa e' costituita grazie ad un capitale che e' fornito da un imprenditore. Nel modello di societa' in cui viviamo, quindi, e' grazie all'imprenditore che fornisce il capitale che la societa' riesce a campare.
Poi c'e' il lavoratore dipendente come me. Cioe', di lavoratori ce ne sono un sacco di tipi, ed io mi ritengo un privilegiato rispetto all'operaio che fa otto ore a sgobbare come uno schiavo per due soldi rischiando in ogni momento il posto di lavoro. Ma tutti i tipi hanno in comune il fatto che il loro contributo nell'azienda non e' quello dell'investimento del capitale, ma di mettere a disposizione il loro lavoro.
Io sono un bravo programmatore. Ma per quanto bravo, i buoni programmi che faccio non mi sfamano. Il mio lavoro per il quale ci metto dell'impegno, delle energie e del tempo non mi darebbe alcun vantaggio se non fosse sottoposto ad un processo di trasformazione in pane, acqua e altri beni necessari. In pratica io metto a disposizione il frutto del mio lavoro all'impresa ed in cambio l'impresa mi fornisce del denaro per acquistare quello che mi serve per vivere.
Oh. Questo e' un ragionamento banale, lo so. Ma mi pare che certi imprenditori a volte non lo capiscano. O forse facciano finta di dimenticarselo per loro convenienza. Quindi mi pare il caso di ribadirlo.
Insomma, l'imprenditore mette del denaro per fare in modo che l'impresa acquisti da me del lavoro.
Ma perche' dovrebbe fare una cosa del genere? Ovviamente perche' se e' vero che io ho necessita' di trasformare il mio lavoro in denaro per vivere, l'impresa ha necessita' di trasformare del denaro in lavoro, per vivere. In altre parole, il rapporto di lavoro tra l'imprenditore e il lavoratore serve a regolare un semplice principio di scambio tra soldi e lavoro, da cui entrambe le parti traggono vantaggio.
L'imprenditore pero' i soldi tipicamente ce li ha gia'. Se non li investisse nell'impresa non morirebbe certo di fame. Il lavoratore invece ha del lavoro da fornire, ma se non ci fosse l'impresa si farebbe una pippa e morirebbe di fame. Da questa asimmetria nasce il ricatto dell'imprenditore sul lavoratore.
Anche da questo punto di vista io sono fortunato rispetto l'operaio. Perche' il lavoro che l'operaio fornisce all'impresa non puo' essere trasformato senza di essa. Io invece potrei vendere i miei programmi. In altre parole io potrei diventare l'imprenditore di me sesso. La differenza tra l'operaio e me sta nel fatto che l'organizzazione necessaria per vendere programmi e' di gran lunga meno complessa di quella che serve a commercializzare il prodotto del lavoro dell'operaio. Mettere su una micro software house in rete credo che sia proponibile, per me, mentre mettere su una azienda automobilistica per un operaio della Fiat sarebbe impossibile.
Pero' temo che il progetto di mettermi in proprio mi costringerebbe ad impiegare molte piu' energie nell'aspetto poco interessante manageriale dell'impresa e mi distoglierebbe dall'aspetto che piu' mi appaga dal punto di vista professionale: i programmi. In sostanza la mia impresa personale fallirebbe perche' non sono capace di gestirla, anche se ritengo che il mio prodotto sarebbe di ottima qualita'. La mia impresa avrebbe bisogno di un manager, il cui sostentamento ridurrebbe il valore del mio lavoro.
Insomma, anche se il tipo di lavoro mio e' piu' elastico, anche io ho bisogno di una costosa organizzazione alle spalle per poter trasformare il mio lavoro in denaro.
Ed e' per questo che c'e' l'imprenditore. Lui ci mette i soldi necessari per tenere in piedi l'organizzazione che serve a me per espletare il mio lavoro e poterglielo vendere in cambio di soldi. Questo servizio in parte e' ripagato all'imprenditore per il fatto che il valore di cio' che produco e' decisamente superiore al suo costo. Mi spiego. Il cliente che compra il mio programma, lo paga molto di piu' del mio stipendio. Se non fosse cosi' non rimarrebbero soldi a sufficienza per pagare il resto dell'organizzazione che mi consente di lavorare.
Insomma, il ruolo sociale dell'imprenditore e' quello di consentire la trasformazione di un tipo di ricchezza (il lavoro), in un'altro (il denaro).

In questo senso l'imprenditore costituisce un valore positivo per lo Stato. Ed e' per questo che gode di privilegi. E non parlo solo delle agevolazioni fiscali giustificate per il funzionamento dell'azienda. L'imprenditore della azienda per la quale lavoro ad esempio va in vacanza ai tropici. Ha una villa enorme, uno schiavo filippino e gira in maserati. Se io avessi suoi soldi probabilmente li impiegherei in modi molto diversi, ma e' fuor di dubbio che io quelle cose non me le posso permettere. Eppure il valore del mio lavoro da programmatore in questa azienda non e' affatto inferiore a quello del suo di manager. Certo c'e' da dire che lui i soldi ce li aveva ancora prima di investirli nell'impresa (giusto o sbagliato che sia, non e' argomento di questo post). Ma quel suo capitale si e' ingigantito grazie al lavoro di quelli come me, mentre io sono li' ancora a litigare con le rate del mutuo.
Insomma, questa disparita' sociale che favorisce l'imprenditore nei confronti del lavoratore (o il capitalista nei confronti del proletario, per usare termini desueti) e' il prezzo da pagare per la redistribuzione della ricchezza sulla popolazione.
Cioe', esistono altri modelli economici. Per esempio il socialismo di stato. Ma una vera alternativa funzionante al capitalismo io non ce l'ho, quindi l'accetto.

In sostanza l'imprenditore ha diritto ai propri privilegi in cambio della redistribuzione della ricchezza sulla societa'.
Quindi, mi viene da concludere, se l'imprenditore non consente o in qualche modo ostacola la redistribuzione della ricchezza sulla societa', allora non ha piu' diritto a quei privilegi.
Ad esempio, un imprenditore che licenziasse i propri dipendenti per assumere manodopera sottocosto in un Paese povero, oppure per sostituire la forza lavoro con meccanizzazione, apparentemente genererebbe ricchezza per la societa', visto che renderebbe la sua impresa piu' competitiva, ma in realta' smetterebbe di redistribuire ricchezza agli italiani tramite quello scambio tra lavoro e soldi di cui parlavo sopra. Perche' dovrebbe godere in Italia di quei privilegi? Non lo capisco.
Questo discorso non vale solo per l'imprenditore, ma anche per il manager in generale. Lo stipendio di Marchionne e' giustificato dal fatto che il suo mestiere da' lavoro - e quindi reddito - ai lavoratori della Fiat. Ma quando invece di darlo lo toglie, perche' mai la societa' dovrebbe sopportare che prenda tutti quei soldi?

Siamo in un periodo di crisi!
La giustificazione del peggioramento delle condizioni dei lavoratori e' la crisi economica a livello globale. Gli imprenditori hanno meno ricchezza da investire e quindi hanno poco da redistribuire.
Come dire che nell'era delle vacche grasse l'imprenditore si sbafa l'eccesso di ricchezza prodotto dal lavoratore, mentre nell'era delle vacche magre e' il lavoratore ne subisce le conseguenze.
Si dice che lo svantaggio dell'imprenditore e' che deve subire il rischio. Pero' poi a finire col culo per terra e' il lavoratore, mentre il mio imprenditore va ancora in giro in Maserati, ha ancora la villa enorme con schiavo filippino e va ancora in vacanza ai tropici. Facile rischiare quando le cose vanno bene e poi pararsi il culo quando vanno male. Che diavolo di rischio e'?
Io proprio non capisco.

Tre


10/10/2007

martedì 5 ottobre 2010

Jamme jamme jà curriculì, curriculà

Primi anni '90.
Un po' ingessato nella sua tenuta da competizione (giacca e cravatta davvero non fanno per lui), con la ventiquattrore Delsey che l'aveva accompagnato in tutti gli anni di corso (e anche quelli fuori corso), il giovane Dario si reca all'appuntamento per l'ennesimo colloquio di lavoro. Ne ha gia' fatti tanti, per la verita' (e' un periodo in cui ancora gli informatici valgono qualcosa, nel mercato delle vacche), ma ancora non riesce a scrollarsi di dosso quella agitazione, come se dovesse andare di fronte al prof per un esame orale.
E' convinto che tutto sommato non bisogna dimostrare niente piu' ne' meno di quello che si e' e si sa, perche' bluffare puo' essere controproducente (se quelli ti assumono sulla base delle tue conoscienze, poi quando si rendessero conto che quelle conoscienze non ce le hai, ti caccerebbero - giustamente - a calci in culo).
Niente menzogne, quindi. Regola numero 1. Il trucco e' solo presentarsi bene valorizzando quello che si sa fare, e su questo, al giovane Dario, non lo batte nessuno.
Perche' allora quella sgradevole tensione nervosa? E si' che non e' proprio un ragazzino - dopo tutti quegli anni fuori corso. Ha avuto la possibilita' di scegliersi un piano di studi modellato sui propri interessi, anche se perseguirlo gli ha comportato un enorme dispendio di tempo ed energie. Fortuna che papa' e mamma l'hanno supportato in quel progetto. Eh si', uno come lui, qualche anno dopo, un ministro di un governo di centrosinistra l'avrebbe definito "bamboccione". Boh! Valli a capire 'sti ministri dei governi di centrosinistra!

Ci arriva in auto, Dario, al Centro Direzionale, tutto edifici di vetro e acciaio pieni di uffici... "no... non credo che mi piacerebbe passare parte della mia vita qui..." pensa, chiedendosi che cosa diavolo significhi l'espressione Centro Direzionale. Dario era pronto ad accettare un lavoro a prescindere, perche' essere non-occupati e' frustrante, oltre che pesante sulle spalle dei genitori (in realta' Dario poi trovera' un lavoro soddisfacente in qualche mese).
Parcheggiata l'auto, un'occhiata all'orologio. E' uscito presto di casa per essere sicuro di arrivare in tempo - regola numero 2: mai arrivare in ritardo ad un colloquio. Questo gli ha comportato un notevole anticipo - regola numero 3: mai arrivare in anticipo ad un colloquio. Okay, c'e' un bar. Il nostro va a perdere tempo dietro ad un caffe' e ad una sigaretta (in quei tempi era ancora consentito nei locali pubblici). Anche la barista e' tutta in tiro in quella divisa da bar professionale. Ma dove siamo finiti, in un altro pianeta?
Finalmente e' l'ora dell'appuntamento. Dario suona al citofono "Sono C, ho un appuntamento per un colloquio". Un uomo tutto grigio dall'eta' indefinibile lo accoglie presentandosi. "La faccio accomodare e intanto la prego di compilare questo modulo". Gli porge il modulo e gli apre la porta di un ufficio. E' un ufficio piuttosto ampio, con un tavolo rotondo nel bel mezzo, alcuni poster alle pareti, uno scaffale vuoto, un orologio appeso, tipo Ikea, che segna un minuto di anticipo rispetto l'ora dell'appuntamento. Il silenzio e' rotto solo dal ticchettio dell'orologio. Il colore predominante e' il grigio, la bella giornata sul giardino proprio fuori dalla finestra e' parzialmente nascosta dalla veneziana semichiusa. Ma il locale e' ben illuminato da luci al neon. Dario, lasciato solo nella stanza, inforca la penna e si china sul modulo. Come previsto ci sono domande di tipo anagrafico... nome, cognome, sesso, domicilio, nascita. Seconda pagina: curriculum. Esperienza lavorativa (nessuna), formazione... Dario si chiede perche' gli vengono richieste le stesse informazioni per cui e' stato preselezionato attraverso il suo curriculum. Ma non se lo chiede troppo a lungo: non e' la prima volta che deve compilare una cosa simile.
Terza pagina: test di intelligenza per scimmie. Triangolo, quadrato, pentagono: qual'e' l'elemento successivo? a) cerchio; b) cuoricino; c) esagono. E via cosi' per un numero incredibile di domande, da sfiancarsi le dita a mettere crocette sulle risposte esatte.  Dario vorrebbe dimostrare la propria indole creativa, piuttosto che l'intelligenza da primate, ma non c'e' verso, se anche riuscisse a formulare una legge che gli permettesse di dare una risposta diversa e non ovvia, verrebbe valutata una risposta sbagliata, visto che una spiegazione non e' prevista. I selezionatori sono convinti che il determinismo dell'universo si manifesti nella negazione di ogni creativita', e che quindi l'artista non esiste. Ma che cos'e' l'artista? - si chiede Dario.
Quarta pagina: simile alla terza
Quinta pagina: simile alla quarta. Dario comincia ad essere un poco scocciato. E' gia' passata oltre mezz'ora dall'ora dell'appuntamento e lui non ha fatto altro che mettere crocette su un foglio prestampato, in totale solitudine e rilassatezza. L'atmosfera non e' ne' ostile ne' amichevole. E' semplicemente fuori dal mondo, chiuso in quella stanza illuminata dai neon. Fa quasi freddo, nonostante la stagione estiva. L'aria condizionata e' a manetta.

Dario ha finito di compilare il suo questionario. Ci pensa un secondo ma poi... no, non merita di essere ricontrollato. Si appoggia alla comoda spalliera della sedia e si guarda intorno. Tic. Tac. L'orologio gli da' un po' sui nervi. Quaranta minuti oltre l'ora dell'appuntamento. Chissa' - pensa Dario - magari mi stanno lasciando da solo in questa stanza apposta, per poi condurmi in un'altra e farmi domande sui particolari di questa, per testare il mio spirito di osservazione. Non si sa mai - 'sti esaminatori sono spesso degli psicologi-da-pane-e-salame. Va be'! E quindi dovrei dimostrare di essere patologicamente un acuto osservatore o di essere superficiale e non aver osservato niente? Be', mai mentire ai colloqui, regola numero 1. Quindi nel caso me lo si chieda rispondero' che avevo previsto che me lo si chiedesse. Nel qual caso potrei mostrare forza di carattere per non essermi piegato ad una richiesta stupida oppure dovrei dimostrare di essere quello che accetta le regole ed agisce in rispetto della loro autorita'. Nel primo caso dovrei cercare di memorizzare i dettagli, nel secondo caso dovrei evitarlo. Boh, non si sa mai, tanto siamo qui a perdere tempo, osserviamo. L'orologio e' rotondo, i numeri sono romani solo sui quarti di giro: III, VI, IX, XII. Lo scaffale ha tre ripiani. Nel paesaggio agreste ritratto nel poster la cascina ha due ordini di otto finestre con gli scuri verdi, tutti aperti tranne la prima finestra a destra del piano terreno...
Cinquanta minuti dopo l'ora dell'appuntamento.
Cinquantacinque minuti. Dario comincia a guardare impazientemente l'orologio. Bussano finalmente alla porta e aprono senza attendere risposta. Dario fa a tempo a ricomporsi e, alzandosi, a girarsi. Appare una donna, finta bionda, con un po' troppo trucco. Un tailleur elegante blu, con camicetta un po' troppo sbottonata. Non guardare li', Dario. Sorride e porge la mano "Ci scusi se l'abbiamo fatta attendere". Dario nota l'uso del plurale a sproposito e il femminile che suona buffo ad accordarsi in genere al pronome Lei.
L'esaminatrice tiene una di quelle cartellette rigida a clip su cui e' agganciato il curriculum. Gli chiede di accomodarsi. Il tavolo e' piuttosto ampio, per cui si siedono uno accanto all'altra, contorcendosi un poco per guardarsi in faccia.

Esaminatrice: "Dottor C, cosa L'ha spinta a preferire la nostra Azienda?"
Dario (riprendendo il plurale di prima): "In realta' quel che so dell'Azienda e' quello che ho letto sul vostro annuncio"
Esaminatrice: "Si', ma ci ha spedito il curriculum, quindi..."
Dario (mai mentire, regola numero uno): "In realta' ho risposto ad altri annunci, oltre al vostro, ed ho spedito molti curriculum, nell'intenzione di..."
Esaminatrice: "Curricula"
Dario (possibile?!?): "Scusi?"
Esaminatrice: "Curricula. Lei ha spedito molti curricula. Singolare: il curriculum, plurale: i curricula".
Dario (perplesso): "...ne ho spediti molti nell'intenzione di..." (ma perche' subire?)
Esaminatrice: "...?!"
Dario (sorridendo): "Eh gia'. Lei ha ragione. Curriculum e' un neutro della seconda declinazione, e il nominativo plurale e' in -a, quindi. Curricula..."
Esaminatrice (faccia perplessa ma soddisfatta di ottenere ragione): "..."
Dario (tentando di dissimulare la soddisfazione per il sovvertimento del gioco tra le parti): "...anzi, quei cosi li ho spediti, quindi non si tratta di nominativo. E' un complemento oggetto: un accusativo plurale, dunque... Che e' comunque in -a. Curricula."
Esaminatrice (piu' irritata. Dario sta forse andando un po' oltre il limite): "si' ecco..."
Dario (fingendo espressione pensierosa): "...mi pare si tratti del diminutivo di 'currus'...".
Esaminatrice (non tenta nemmeno di mascherare l'irritazione): "...si', be', comunque, mi stava dicendo che ha spedito..."
Dario (scrollandosi la testa a dimostrare platealmente il ritorno alla realta'): "...ah, gia'... scusi... ho spedito molti curricula..." (si interrompe come alla ricerca del filo del discorso interrotto...)
Esaminatrice (senza dissimulare impazienza): "..."
Dario (maledizione, mi hai fatto buttare un'ora a fare crocette, ora tocca a me!): "...certo che..."
Esaminatrice (ormai ribolle): "?!?"
Dario (illuminato dall'idea): "...certo che in effetti, i neutri della seconda declinazione, in italiano, in genere hanno il comportamento bizzarro di declinarsi al maschile nel singolare e al femminile nel plurale..."
Esaminatrice (incazzata, ma anche incuriosita): "?"
Dario (finge di spiegare piu' a se stesso che a lei): "...si'... il muro/le mura, ad esempio. Oppure certe parti del corpo umano: l'osso/le ossa, il labbro/le labbra, il ginocchio/le ginocchia, il dito/le dita, il ciglio/le ciglia, il braccio/le braccia..."
Esaminatrice (mostrandosi falsamente divertita): "...quindi?"
Dario (ignorandola): "...gia'.... che strano quest'ultimo... nella parola composta "avambraccio" si comporta come un regolare maschile, anche al plurale: gli avambracci..."
Esaminatrice (ora deve intervenire per dimostrare la propria superiorita'): "gia'... ma si tratta di una parola comp..."
Dario (interrompendola spudoratamente): "si' ma non si spiegherebbe come la parola composta sopraciglio, si comporti come la radice, e faccia le sopraciglia, femminile al plurale..."
Esaminatrice (ora basta!): "Okay, torniamo a noi..."
Dario (ormai l'esaminatrice non esiste piu'): "...quindi, a rigore, curriculum dovrebbe essere declinato al femminile, se plurale: le curricula..."
Esaminatrice (ormai disperata, vuole passare oltre): "...okay..."
Dario (non ha nessuna intenzione di mollare il colpo): "...certo che 'curriculum' in effetti, rispetto agli altri esempi, ha la particolarita' di non essere tradotto in italiano. Nessuno dice 'il curriculo'. Si usa direttamente la parola latina: curriculum"
Esaminatrice (ammutolita non puo' far altro che ascoltare): "..."
Dario (dissimulando divertimento): "...e' che... sa cosa?"
Esaminatrice (incuriosita): "cosa?"
Dario (pazientemente spiega): "...che siamo ad un dilemma: in italiano le parole straniere non si accordano in numero, ma rimangono invariate rispetto alla radice. Cioe', non si dice 'weekends', 'fastfoods', perche' sono parole inglesi: rimangono 'weekend' e 'fastfood' anche al plurale. Lo stesso vale per le parole francesi: lo chef/gli chef, l'omelette/le omelette, il croissant/i croissant. O per quelle tedesche il blitz/i blitz, il dobermann/i dobermann, l'hinterland/gli hinterland. Per altro non conosco per niente il tedesco, quindi non saprei proprio come costruire il plurale di questi ultimi esempi..."
Esaminatrice (cercando di intervenire per mostrare un poco di cultura): "in tedesco si dice..."
Dario (ignorandola, di nuovo): "...ed e' forse per questo. Uno, per parlare italiano, non e' mica tenuto a conoscere le regole delle lingue straniere!..."
Esaminatrice (incassando il colpo): "..."
Dario (ripensando alle proprie parole): "E' che forse non e' proprio corretto considerare il latino una lingua straniera. Una lingua straniera e' probabilmente considerata quella che e' comunemente parlata in un'altra nazione da un popolo con altre tradizioni culturali. Il latino non ha queste caratteristiche..."
Esaminatrice (distrutta): "...gia' quindi..."
Dario (fingendo di seguire il discorso di lei): "...quindi forse e' giusto conservare il plurale nella lingua originale. Curricula... rimane solo da stabilire se si tratta di maschile o femminile"
Esaminatrice (mettendosi una mano alla bocca e alzando gli occhi al cielo alla ricerca di una ispirazione): "...io direi...."
Dario (venendole in aiuto): "...certo, come diceva NonRicordoPiuChi', e' l'uso che determina la grammatica e non viceversa. Io non uso molto frequentemente la parola curriculum. Probabilmente Lei per lavoro ha piu' a che fare con essa, quindi e' piu' qualificata a fornire una soluzione a questo quesito. Maschile?"
Esaminatrice (incerta): "uhm... direi..."
Dario (chiudendo definitivamente la divagazione): "Okay, maschile. Dicevo: ...ho spedito molti curricula ad altre aziende (cavoli, suona malissimo!). Alcune mi hanno risposto e sto facendo colloqui. In realta' pensavo di farmi un'idea, anche se incompleta, di questa azienda proprio durante questo incontro..."
Esaminatrice: "E se ne e' fatta una?"
Dario (abbassando irrispettoso lo sguardo sulla scollatura di lei): "Molto vaga, per la verita'. Sarebbe davvero stato carino incontrarla in abbigliamento casual, invece che in quell'elegante tailleur, per esempio"
Esaminatrice (stupita e falsamente infastidita): "Non vedo come il mio abbigliamento possa..."
Dario (aiutandola a capire): "E' che io faccio software, e sono pure bravo in questo. Pensare che il rigore nell'abbigliamento possa essere di qualche utilita' in questo campo significa che o non mi si vuole sfruttare in un impiego adeguato alle mie capacita', oppure non si ha ben chiaro quali siano le mie mansioni, in ogni caso non e' una buona valutazione del posto che mi si vuole offrire. Fermo restando che la situazione che si e' creata durante questo colloquio potrebbe essere molto diversa dall'ambiente di lavoro normale. Tuttavia e' proprio su questa che baso il mio giudizio, non avendo altri termini di confronto. Ci sarebbe invece da chiedersi su che cosa voi potreste basare la valutazione su di me..." (alzando schizzinosamente il questionario con due dita, come se fosse infetto) "su questo coso qui?" (aria di scherno).

Il colloquio prosegue poi per un'altra buona mezz'ora, durante la quale non viene fatta a Dario alcuna domanda di tipo tecnico (la cui risposta l'Esaminatrice non avrebbe comunque potuto valutare). Nessuno dei due e' piu' interessato all'altro. Alla fine l'Esaminatrice offre un caffe' a Dario, il quale rifiuta cortesemente. Si stringono la mano e lei ripete la frase di rito "Le faremo sapere", che Dario si aspettava.
Dario esce e raggiunge il bar sorridendo mentre ripercorre mentalmente la discussione. Sicuramente non lo richiameranno, e' stata una mattinata persa. Ma e' la prima volta che non prova frustrazione per un colloquio andato male. Anzi, prova orgoglio a pensare che in fondo in fondo, se e' vero che un lavoro e' necessario per portare a casa la pagnotta, e' pur vero che ad ognuno, anche se laureato e disoccupato, dovrebbe essere riconosciuta una certa dignita', e rivendicarla ad alta voce dovrebbe essere un diritto. Entra nel bar e sta per ordinare un panino con il prosciutto, con il sorriso in bocca. Si siede allo sgabellone davanti al banco, e la barista in divisa elegante gli si avvicina e gli sorride chiedendogli l'ordinazione "Prego?". Dario non riesce a resistere alla tentazione "Scusa... ma secondo te... il plurale di ciliegia si scrive con o senza la i?". Lei lo guarda sorpresa. Lui cerca invano di trattenere una grassa risata, a cui lei viene contagiata, senza capirne il motivo. Si ricompongono entrambi, lei si abbassa appoggiando i gomiti al banco e sussurrando (come se fosse un segreto) "sai che non lo so proprio?". E poi scoppiano di nuovo a ridere. Dario prende il panino e una coca e si siede al tavolo. I due evitano di guardarsi per non scoppiare di nuovo a ridere.

Questa storia e' un po' romanzata e imprecisa, considerato anche che sono passati quasi vent'anni. Ma gli episodi salienti sono tutti autentici. L'unica invenzione significativa e' il bar. E la barista.